aplacetoburystrangers

A Place To Bury Strangers, Transfixation

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E’ un sentimento intenso, quando ti rechi ad un concerto ed hai la netta sensazione di essere spaventato. Senza troppi giri di parole il leader e chitarrista Oliver Ackermann sgombra il campo da ogni dubbio, ribadendo come A Place To Bury Strangers non temono rivali in termini di urgenza. Rincara la dose il bassista Dion Lunadon, quando parla di terrore palpabile nella musica: sta per accadere, tutto l’edificio sta per crollare – da un momento all’altro – ed i musicisti coinvolti sono così coinvolti da non preoccuparsi di null’altro. Riconoscono un solo obiettivo, è una vibrazione interiore, di ‘pancia’. Tutto appare come maligno e pericoloso, finanche sgradevole. Ma è l’idea stessa di non accettare il compromesso, puntando ad una realizzazione personale.

Questi attributi, non certo accomodanti, possono essere trasferiti su di un’unica piattaforma, quella di Transfixiation, il loro quarto album edito da Dead Oceans. Piuttosto che riflettere su minuti dettagli – come magari avvenuto nel recente passato – il gruppo (completato poi dal batterista Robi Gonzalez, qui al suo debutto) crede unicamente nel proprio istinto, nell’intento di mantenere le cose ad un livello il più possibile incontaminato. Un disco così imprevedibile da far ravvedere anche chi aveva indicato gli A Place To Bury Strangers come gli epigoni americani della rivoluzione shoegaze. Oggi siamo altrove, sono state superate le soglie di sbarramento. I tre continuano a violentare bassi e chitarre ma lo fanno in una maniera quasi repentina, seguendo un istinto affatto mediato. Difficile trasporre su disco la rovinosa estasi dei loro concerti, eppure Transfixation riesce a coronare un sogno, quello di presentare il gruppo nel suo stadio più creativo. Nulla è ovvio, anzi le potenzialità inespresse si concretizzano oggi in un mix che prevede anche sottili e magistrali esperimenti pop, oltre ad inserti che familiarizzano con l’eredita post –industriale.

Tutto è più snello attenzione, e mai come ora questi veterani dell’ East Coast sono apparsi vicini forma canzone certo disossata, ma pur sempre avvincente. Fuoco cammina con me.

http://www.youtube.com/watch?v=D7iG_s4PJM8

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Klaus Schulze Live

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…nel corso della sua carriera Klaus ha partecipato ad almeno 380 concerti, 119 come solista ed i restanti come ospite o componente di gruppi a loro modo seminali come Psy Free, Ash Ra Tempel, Tangerine Dream o Stomu Yamash’ta’s GO. Alcuni di questi live sono stati registrati e gelosamente conservati, altri già ufficialmente pubblicati. Il primo della serie fu l’emblematico ‘…Live…’ dato alle stampe nel 1980 ed accompagnato da una dichiarazione ad effetto dello stesso Klaus: ‘questo è il mio primo ed ultimo disco dal vivo’. La storia ci ha raccontato qualcosa di diverso, consegnandoci in realtà altre fatiche dal vivo del corriere cosmico per eccellenza.

Queste incisioni in particolare appartengono a un tour del 1977, già parzialmente edito su di una pubblicazione pirata. L’idea di rendere pubbliche quelle incisioni ha portato anche ad un ridimensionamento della condizione ‘bootleg’, nel rendere ufficiali questi titoli, si procederà a tutta una valorizzazione dell’ampio catalogo del nostro, fatto appunto di ispirate performance live. Le tre composizioni presentate durante uno show all’università di Brussels nel 1977 erano troppo lunghe e corpose per occupare un solo cd, ma allo stesso tempo non sufficienti a pubblicare un doppio… per questo motivo ho provveduto ad aggiungere una traccia bonus dai miei archivi personali per completare il secondo cd. Questo pezzo è il primo eseguito da Klaus nella città olandese di Arnhem nel 1979. Posizionammo il registratore a cassette dello stesso Klaus sul palco, proprio nel mezzo dei due monitor.. Un approccio primitive se vogliamo, ma al tempo le cose andavano esattamente in questo modo. Principalmente per Klaus, che amava riascoltarsi nelle occasionali camere di hotel durante la notte munito di fedeleissime cuffie. Dopo un’esibizione del genere non poteva certo coricarsi e prendere sonno come se nulla fosse accaduto…

‘Dalle note originali del biografo Klaus Dieter Mueller’

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FUGAZI DEMO_700

Fugazi, il demo!

FUGAZI DEMO_700

Gennaio 1988, dopo appena dieci apparizioni dal vivo i Fugazi decidono di recarsi ai locali Inner Ear Studio, giusto per trasferire su nastro il risultato delle loro effervescenti e spontanee apparizioni in pubblico. Fermare il momento, carpe diem. Undici canzoni, dieci delle quali furono sistematicamente ‘sdoppiate’ e distribuite gratuitamente su nastro ai loro concerti, gratuitamente, seguendo peraltro un’etica già fortificatasi nel corso degli anni di militanza nella scena washingtoniana. La spinta a mettere ulteriormente in circolo questi materiali fu opera della band, che insistette affinché i giovani sostenitori potessero a loro modo duplicare i contenuti della cassetta.

L’unica canzone che ebbe una distribuzione ufficiale – ‘In Defense of Humans’ – apparve sulla storica raccolta manifesto ‘State Of The Union’ nel lontano 1989. Dopo la bellezza di 26 anni, Dischord decide di pubblicare ufficialmente l’intera session aggiungendo peraltro un brano – Turn Off Your Guns – non incluso nel nastro originale. Il mastering è stato curato da TJ Lipple per offrire i migliori risultati sia nel format digitale che vinilitco.

Questa pubblicazione coincide con il completamento del sito web Fugazi Live Series, in cui molte incisioni storiche dl gruppo di Washington DC verranno rese pubbliche e condivisibili attraverso il peer 2 peer.  Lanciato nel 2011, il sito include dettagliate informazioni su oltre un migliaio di concerti, documentati esclusivamente dalla band o dal loro ampio pubblico di fedelissimi. Una risorsa quasi inesauribile per continuare  a caldeggiare l’ultimo bastione indipendente dell’underground americano, in attesa di qualche fantomatica reunion…

http://www.youtube.com/watch?v=vrkI_Q3NHAo

Run-The-Jewels

Run The Jewels 2 – El-P e Killer Mike, feat. Zack De La Rocha

Run-The-Jewels

Puntate il lettore su ‘Close Your Eyes (And Count To Fuck)’, un sobbalzo, un colpo al cuore. Si rivede Zack De La Rocha, la consciusness hardcore negli Inside Out, lo stiletto politico, la spina nel fianco del sistema amerikkka coi Rage Against The Machine.  Il progetto è uno di quelli dinamitardi e la comparsa di Zack non è altro che la classica ciliegina sulla torta. Questo è un disco destinato a scuotere gli edifici hip-hop più belligeranti, con caparbietà, questo è Run The Jewels.

Poco più di un anno di vita e l’evidenza del prodigio è agli occhi di tutti. El-P e Killer Mike hanno messo in piedi una macchina killer, che viaggia agevolmente al margine del sistema discografico, senza interagire per nulla con le grandi corporazioni. Tanto che il loro debutto omonimo è stato liberamente condiviso in download digitale. L’antefatto: nel 2012 El-p produce l’acclamato disco di Killer Mike a titolo ‘R.A.P. Music’. Sul finire dell’anno quest’ultimo restituisce il favore: un featuring in ‘Tougher Colder Killer’, uno dei pezzi forti dell’album di El-p ‘Cancer 4 Cure’. L’intesa è forte, tanto da sollecitare i due ad un’alleanza strategica. Run The Jewels 2 – licenziato dall’etichetta Mass Appeal – è a conti fatti il vero e proprio esordio discografico.

Un’esplosiva miscela di rime e basi che rivedono la stagione d’oro della Def Jux – di cui El-p è stato a ragione uno dei pesi massimi –   proiettandola in una nuova urgente attualità. E’ un disco che rompe ogni indugio, cercando nella contaminazione la piena libertà espressiva. Il cast degli ospiti è così eclettico da esser quanto meno celebrato. Oltre alla bandiera dei RATM, si segnala la presenza di Travis Barker (batterista dei Blink 182), dell’onnivoro James McNew (bassista degli Yo La Tengo), di Diane Coffee (alter ego del giovane attore prodigio della Disney Shaun Fleming, dalla scuderia Western Vinyl) ,  Michael Winslow (l’attore statunitense meglio noto come l’uomo dai 10mila suoni) e del chitarrista Matt Sweeney (vicino tanto a Billy Corgan tanto quanto a Bonnie Prince Billy).

E’ il future hip-hop in comunione con l’indie-rock, sotto il tiro franco del crossover, qui più attitudine che genere. E’ un ritorno-bomba ai tardi ‘90, all’alba degli anni zero. Quando tutto sembrava più affascinante e pronto ad esplodere. Run The Jewels è la nuova street knowledge, il palcoscenico della nuova letteratura metropolitana.

http://www.youtube.com/watch?v=PkGwI7nGehA

irreal

Disappears, Irreal

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‘Irreal’, il quinto album della piccola istituzione di Chicago, è un altro viaggio all’interno della tana del coniglio, tanto per usare un eufemismo caro agli inglesi. Del resto la musica dei Disappears ha sempre trovato ampli margini espressivi proprio sull’onda di una esposizione sintetica del verbo psych. Cresciuti all ‘ombra della rivoluzione post-punk – sfociata in altri termini in quella post-rock – i nostri hanno trovato in  Brian Case un leader eclettico, capace di ricavare le giuste informazioni da uno stile sempre sul filo del collasso emotivo. Del resto la nevrosi e la ricerca di una continuità intellettuale sono stati il pane del suo primo gruppo ‘importante’ , i 90 Day Men, stessa scuola di talenti da cui è emerso Robert Lowe (Om,  Lichens). E’ bene tornare su quei luoghi, perché laddove il sacro fuoco della Touch & Go andava estinguendosi, altre realtà si sarebbero progressivamente involate sulla scena.

La stessa Kranky, altra istituzione della windy city che sin dagli esordi ha preso sotto la sua ala protettrice i Disappears. Sulla stregua del libro esperienza di Lewis Carroll, il disco funziona un pò come una sequenza onirica, dove basi simil dub prestano il fianco agli esperimenti più oltraggiosi compiuti dalla band ad oggi. Se il loro ultimo album ‘Era’ confermava l’idea di un viaggio singolare, ‘Irreal’ è il luogo in cui quei percorsi si materializzano definitivamente. Un altro indizio: un veterano come Steve Shelley dei Sonic Youth li ha seguiti in tour, come a certificarne l’assoluta originalità. E’ quasi un plot ballardiano quello che attraversa il disco, si parla di macchine e di identità smarrite, dove le camere d’eco sono lo specchio di un inquietante futuro. Una coltre industriale, il sapore letargico della cold-wave, l’arma della dissuasione attraverso la parola. Il gioco ipnotico dei Disappears è oggi quanto meno invitante, proprio perchè capace di raggelare le più astratte contingenze dell’art rock. Ritmi dispari in sospensione, quasi una matrice This Heat, unitamente ad un gelido scandire che fa molto Cabaret Voltaire.

Qui siamo all’apice della scomposizione in tessere, quello interpretato dai Disappears è un gioco dialettale difficile e per nulla stereotipato.  Una meccanica eterna fatta di esoterismi urbani e cronistorie dal buio dell’anima. Prodotto da John Congleton presso gli studi istituzionali Electrical Audio di Chicago, ‘Irreal’ è lo spazio tangibile in cui art rock e post-punk collassano su sé stessi. Una riflessione sul nulla odierno, un rumore felpato, uno dei gruppi simbolo del deforme underground americano. Un piccolo grande masterpiece.

http://www.youtube.com/watch?v=6oH2xn4r-E0

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Viet Cong, L’eredità Degli Women

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Ci vogliono appena sessanta secondi del brano d’apertura ‘Newspaper Spoons’ per pronunciarvi sul carattere invernale dell’album di debutto di  Viet Cong. Per certo il disco è aspro nei toni, ferisce, insinuando acumi velenosi sottopelle. E’ il lavoro della proverbiale maturazione, dopo che il recente Ep per Mexican Summer ne aveva già illustrato la metodica strategia. Siamo in pieno fermento wave e la polaroid dei Viet Cong non è affatto sbiadita. Passando in rassegna i momenti più galvanizzanti di un’intera scena – quella britannica ad onor del vero – i nostri ci regalano una palpitante cronistoria che mai rinuncia alla citazione d’autore. Un ritmo marziale, una melodia minacciosa, una chitarra tagliente, tutto al momento giusto, come in una minuziosa carrellata cinematografica.

E’ lo stato dell’arte del post-punk, quello che molti protagonisti contemporanei hanno solo apparentemente sfiorato, mancando quel tocco risolutivo sotto porta. Le capacità realizzative dei nostri non sono infatti in discussione, l’abilità nel ricreare quelle atmosfere crepuscolari ha del divino. Predestinati in fin dei conti. Il loro maggior dono è la capacità di umanizzare pietre grezze, solchi glaciali di vinile, ricavando una carica emotiva che è il loro maggior vanto. Registrato  in un fienile trasformato per l’occasione in uno studio di registrazione – in Ontario, parecchio fuori mano – il disco si regge su sette febbricitanti episodi già opportunamente testati dal vivo. Jagjaguwar è così lieta di introdurre la creatura definitiva di Pat Flegel in combutta con Mike Wallace, Scott Munro e Daniel Christiansen. Flegel e Wallace (rispettivamente chitarra/voce e batteria) tornano per certi versi all’ovile, ricomponendo la brusca frattura che aveva portato allo scioglimento dei Women, prodigiosi interpreti dell’indie più avveniristico, scomparsi a mala pena dopo due album. Fu un lutto a decretare la fine di quella ispirata esperienza, la disgraziata morte nel sonno del chitarrista Christopher Reimer pose la pietra tombale sui Women.

Si riparte con le figure di basso di  ‘Silhouettes’, quasi un’ ode ai Joy Division, uno dei punti fermi di questa nuova  raccolta di potenziali singoli che girano sullo struggimento interiore per cercare una nuova via oltre il crepuscolo quotidiano. Preziosa anche ‘Continental Shelf’ un gioiello proto-punk ipercinetico che conferma semmai l’asse su cui il gruppo muove. L’urgenza dei migliori artigiani white-funk unita alla proverbiale mise del rock gotico, in sintesi questo il gioco di specchi su cui poggia l’omonimo esordio lungo dei quattro. Desolate poesie periferiche pronte ad intersecare la vostra impenitente esistenza.

http://www.youtube.com/watch?v=hdMz7BUtOvk

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Spittle news: Plastic Trash

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Magari all’epoca non sembrava evidente come lo è oggi, ma i Plastic Trash avevano un nome maledettamente anni ’80. Fondamentale questa ristampa della Spittle che ci regala – intaccate – le medesime emozioni del tempo, destinando il giusto palcoscenico ad una delle più diverse realtà dei sotterranei italici. Disposte in ordine cronologico, le quindici canzoni costituiscono l’intera eredità della band a livello di incisioni in studio, di materiale di prima scelta e non scarti di lavoro, come magari suggerito da un titolo privo di qualsivoglia velleità autocelebrativa. Lo stile della band accarezzava le ipotesi più romantiche della wave inglese, tra efficaci alchimie di chitarre, tastiere e ritmica. Una pagina gloriosa del post punk emiliano, qui completa e pronta a stupire nella sua attualità. 

Sono stati tutt’altro che la classica meteora, i Pla’sticost, come provato da una carriera che si e’ snodata per un bel pezzo, concedendosi persino una reunion mordi e fuggi in occasione del trentennale. Se il nome del gruppo vicentino e’ scolpito nella storia del rock italiano i meriti sono però soprattutto del mini- lp d’esordio, anno domini 1983, che non a caso è in testa alla scaletta di questo cd. Anche il resto e’ motivo di interesse: ‘Panorama Panorama’ fu incisa poco dopo per Rockgarage compilation vol.4 e recuperata nel 1987 in ‘Evviva Evviva’, il successivo 12″ep che ratificò una sorta di svolta pop. Tranne ‘Notte Inquisitoria’, pubblicata nel 1982 in Rockgarage compilation vol.1, nessuno degli altri dodici episodi uscì all’epoca su disco ma tutti ebbero diffusione su cassette amatoriali.

http://www.youtube.com/watch?v=KUU8RMWxzc8

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Anthony Pateras Meets Mike Patton

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Un’altra straordinaria collaborazione prende il via sotto l’egida della Ipecac di Mike Patton, protagonista a sua volta del progetto Tetema in combutta col musicista e compositore australiano Anthony Pateras. ‘Geocidal’ è la straordinaria visione di questo originale guastatore, che vanta una discografia corposa con pubblicazioni per prestigiose etichette come Tzadik e Mego, sempre in bilico tra musica elettronica e contemporanea. Quindici mesi per mettere insieme i piccoli pezzi di un mosaico ora imponente. Dall’elettronica analogica – segno distintivo ed indelebile – all‘ utilizzo pedissequo di archi, strumenti a fiato e percussioni distintamente ‘orchestrali’, registrati in luoghi necessariamente diversi, proprio per restituire alle composizioni un carattere distinto. La voce di Patton è il collante, lo sprono, il faro nel nebuloso porto di mare. Una consegna precisa quella di Pateras, immortalare le singole voci strumentali in presa diretta, senza ricorrere in maniera invasiva alle macchine, conservando il proposito della performance dal volto umano.

Per ‘Geocidal’ il bilanciamento tra questi elementi caleidoscopici passa necessariamente da picchi esplosivi a momenti di pura estasi elettronica. Un disco che sa essere frenetico senza rinunciare a momenti ritmici simil-trance, in cui le percussioni introducono groove spaziali in una visione jazz davvero globale. Il taglio cinematico è assicurato dagli archi e dal pianoforte, che insinuandosi perentoriamente sottopelle, condiscono l’atmosfera di una drammaticità quasi classica. Per Mike ci sono spazi enormi, distese a volte siderali in cui estendere il proprio dominio, ricorrendo alle sue celebri tecniche vocali estese.

Un album inclassificabile a conti fatti, per Pateras la libertà stilistica è una condizione cui è impossibile rinunciare. La qualità non viene mai svilita in favore della quantità, nonostante la ricchezza delle fonti non si ha mai l’impressione di un prodotto sbiadito a causa di dinamiche accelerate. Il talento risiede nella proprietà di linguaggio e nella conoscenza dei mezzi, e l’idea d’0’avanguardia di Pateras non rifiuta certo i luoghi più impervi della musica popolare, fornendo così un sunto delle innumerevoli musiche di confine dell’oggi. Un classico immediato verrebbe voglia di esclamare.

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Sleaford Mods, Compila Su Ipecac

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Non hanno certo bisogno di introduzioni i due ragazzi terribili di Nottingham meglio noti come  Sleaford Mods, hanno penetrato ferocemente la coscienza di numerosi giovani britannici, suscitando altrettanta curiosità e rispetto nel resto del vecchio continente.  Il loro sesto album Austerity Dogs, pubblicato nel 2013, ha definitivamente sciolto ogni dubbio sulla varietà e costanza del progetto. Tanto da stuzzicare numerose altre entità indipendenti, a loro modo molto influenti. Se è di questi giorni la pubblicazione di un Ep per la A Recordings di Anton Newcombe (Brian Jonestown Massacre) preparatevi ad un matrimonio di lusso con Ipecac per la compilation Chubbed Up, disponibile in precedenza nel solo formato digitale.  Un particolarità non da poco: questa versione conterrà tre tracce precedentemente inedite che faranno sobbalzare ogni fan di stretta osservanza: ‘The Committee’, ‘Bring Out The Canons’ e ‘Fear Of Anarchy’. Il solito condensato di funerea ironia e battiti marziali, ormai un marchio distintivo per questo combo che ha saputo farsi largo non solo tra gli appassionati dell‘indie-rock, ma anche tra gli orfani di certo urban hip-hop made in Uk.

Non  a caso i riferimenti più classici parlano di The Fall e The Streets  – due facce della stessa medaglia se vogliamo, laddove l’ impianto lirico è il fulcro su cui regge tutta l’economia della band. Quello che nacque come un progetto solista a nome Jason Williamson nel 2006, diviene a tutti gli effetti un gruppo nel 2009 con l’ingaggio di Andrew Fearn, che aggiunge campioni e ritmiche corpose al lavoro dello scalmanato frontman. Dopo esser divenuti il gruppo di punta dell’etichetta abstract-punk Harbinger Sound, si schiudono nuovi orizzonti per questa coppia di scellerati proveniente da un Inghilterra di nuovo proletaria.

http://www.youtube.com/watch?v=NyXt5dPEfeQ

foto Bari jb low

Bari Jungle Brothers, rime patate e cozze

Sono la risposta pugliese ai famosi “contaminatori” statunitensi dell’hip hop e hanno come vessillo il piatto più celebre della loro tradizione.”Rime Patate e Cozze” è il primo avvincente album del collettivo Bari Jungle Brothers. Un’opera prima dai profumi forti e speziati, che tra racconti di ordinaria convivialità e riflessioni spontanee, restituisce lo spaccato di una città intera: Bari. Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei!

L’album è prodotto da Goodfellas e promosso con il sostegno di Puglia Sounds Record Sei mc’s, una città, tre generazioni di artisti: un disco che nasce sullo sfondo della città di Bari e porta la firma di Reverendo,  Torto, Walino, Il Nano, Ufo e Ciklone. Un lavoro corale che unisce storie, stili, vite differenti. Un progetto che traccia la breve storia di una generazione in rap e si offre all’ascolto con brani che spaziano da sonorità solari e mediterranee ad altri più tesi dai toni decisamente suburbani. Sono immagini in forma libera, parole in fuga. Non si tratta di una compilation in cui ciascun artista esprime il proprio talento in maniera asettica, ma dell’espressione di un vero e proprio processo collettivo in cui l’apporto dei singoli contribuisce  ad evidenziare unicità stilistica e forza espressiva. Si passa da un brano ispirato e profondo come “Le tue strade”, prodotto da Mastermaind, uno tra i migliori beatmakers d’ Italia, a uno più scanzonato e allegro come “Rime patate e cozze”. L’atmosfera terrona, sincera  e colma  di affetto di un pezzo come “Vin alla Nonn”,composto e rappato da Max il Nano, è accompagnata dalle rime da battaglia presenti in “Isassi contro il re” o dagli esercizi di stile presenti in “Tre Lune”.

Siamo di fronte ad un manipolo di rappers con alle spalle una serie importante di dischi, video, collaborazioni, concerti. Musicisti di strada che attraverso un lavoro durato anni hanno costruito un loro solido pubblico. Le liriche profonde e di impatto  di Torto, quelle al femminile di Miss Fritty, unica guest nel disco, la poesia vernacolare di Walino, le rime fresche di Tony Ciklone, il rap senza sconti del Nano e le immagini di Ufo, le melodie di Reverendo, confluiscono in questo modo in un’unica testimonianza collettiva che unisce uomini e donne di diversa età e provenienza, cementati dalla passione comune per questa cultura e dalla volontà di lasciare un segno con la propria musica, nella propria terra.

http://www.youtube.com/watch?v=iMeZWp0TkPY