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Chelsea Wolfe, l’abisso del subconscio

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Chelsea Wolfe ritorna con il suo quinto album da studio, Abyss previsto per il 7 di agosto su Sargent House. Nel corso di 4 album la nostra ha messo in campo una tensione costante, fatta di distorsioni e nebulose territoriali dove le lunghe ombre si allungano oltre il confine del sublime, conservando un’infinita grazia. Se fino ad ora le prove e le tribolazioni della Wolfe – sempre a cavallo tra sogno e realtà – hanno rappresentato un’influenza subconscia sul suo lavoro, con Abyss si confronta deliberatamente con questi confini e plasma quella che è una colonna sonora da lei stessa descritta come “oltre la nebbia . . . una tempesta invertita . . . l’oscurità rovesciata . . . l’abisso del tempo.”
Il suo materiale è sempre apparso intensamente privato, dalle produzioni casalinghe quasi ai confini col voyeuristico dell’album di debutto The Grime and the Glow  sino alle rigide tematiche ed atmosfere del penultimo parto Pain Is Beauty del 2013. “Abyss è stato concepito con lo scopo di replicare lo stato del sonno REM, quando stai sognando e brevemente ti svegli ricadendo immediatamente nello stesso sogno, nuotando velocemente nel tuo stesso subconscio” dice la Wolfe. Per rappresentare adeguatamente questo mondo di mezzo, ha ribadito la sua collaborazione con il polistrumentista e co-autore Ben Chisholm e con il batterista Dylan Fujioka, contando peraltro sul figlio d’arte ed ex-Gowns Ezra Buchla alla viola e  Mike Sullivan (Russian Circles) alla chitarra. L’ensemble si è diretto a Dallas, TX per registrare con il produttore John Congleton (Swans, St. Vincent). Un solo diktat in mente, le parole del designer Yohji Yamamoto: “La perfezione è brutta. Alle volte nelle cose prodotte dagli essere umani voglio vedere le ferite, il fallimento, il disordine e la distorsione” Le 11 canzoni che risultano da questo sforzo collettivo riflettono questa filosofia, confrontandosi coi numerosi aspetti della psiche ed evidenziando la fragilità del nostro essere, l’intimità, la quieta passione, l’ansia e la profonda bramosia.
Il disco si apre con il disorientante barcollare di “Carrion Flowers”, dove la Wolfe rilascia un’ipnotica melodia vocale oltre un monotono tonfo simil-industriale, come in un raga indiano costruito attorno ad una singola nota. Per “Iron Moon” la band spinge oltre gli estremi le sue strategie che prevedono un andamento forte-piano, alternandosi tra una polverosa ballata e slanci simil-doom. Altrove abbiamo la ninna-nanna di “Maw” e le sublimi aperture acustiche di “Crazy Love”. Ma nel mezzo trova alloggio “After The Fall”, proprio il brano più rappresentativo del disco con i sui brutali cambi tonali e la progressiva sequenza degli accordi che permettono alla Wolfe di raggiungere un climax interpretativo che molto deve alla sua fascinazione per Memories, Dreams, Reflections  di Carl Jung.
Tutti gli argomenti correlati al sonno ed al sogno hanno da sempre inseguito l’oscura protagonista, . questioni che sono divenute identitarie e da sempre hanno costituito il corpo su cui montare le liriche ad effetto dei singoli album. Ed Abyss più di ogni altra cosa rappresenta questa dicotomia tra irreale e concreto, una battaglia tra coscienza e ricordi remoti.

 

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Jenny Hval, l’apocalisse della ragazza

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Per chi abitualmente frequenta il catalogo Rune Grammofon e le vicissitudini della musica indipendente scandinava, il nome di Jenny Hval non suonerà certo inedito. Questa è la sua – letterale – benedizione internazionale sotto l’egida di Sacred Bones, che ne pubblica la nuova fatica discografica. Il suo nuovo album si inaugura con una citazione del poeta danese Mette Moestrup, e continua affacciandosi oltre l’abisso. La ragazza dell’apocalisse riportata nel titolo, rivela una narrativa allucinante sospesa tra realtà e finzione, un’ opera che del sogno febbrile fa tesoro, indagando in quella colorata sospensione spazio-temporale tra morte e rinascita. Il tutto raccontato con il linguaggio trasgressivo della musica pop.
Quando la leggenda noise norvegese Lasse Marhaug ha intervistato Jenny Hval per la sua fanzine nel 2014, hanno iniziato a discorrere di film e la conversazione si è rivelata così interessante da spingere la nostra a chiedere una supervisione allo stesso Marhaug per il suo album successivo. L’argomento cinematografico si è rivelato un punto focale nella produzione da studio. Le canzoni della Hval si sono progressivamente evolute dal corpo gelido costituto da sparute forme melodiche e di loop al computer, grazie ai contributi dei colleghi usuali Håvard Volden e Kyrre Laastad. Fino ad arrivare alle esplorazioni totali del corpo musicale con l’ingresso di esterni quali Øystein Moen (Jaga Jazzist/Puma), Thor Harris (Swans), e dei campioni della musica da camera improvvisata  Okkyung Lee (cello) e Rhodri Davis (arpa). Tutti questi musicisti hanno almeno due cose in comune: sono feroci nel loro approccio pur conservando un grande orecchio per l’intimità, e la loro capacità è proprio nell’udire musica tanto nella chiusura di una valigia quanto in una melodia meravigliosa. Questo disco è così una bestia, almeno visivamente parlando. Immaginate una vecchia pellicola di fantascienza dove le ragazze del coro gospel sono in realtà delle eroine punk che comandano il mondo con i loro impulsi auto-erotici. Jenny Hval ha sviluppato un suo stile unico e per certi versi autobiografico, a partire dal suo debutto nel 2006. Ha toccato vertici artistici importanti nel 2013 con ‘Innocence Is Kinky’ (Rune Grammofon), ponendo in maniera definitiva il linguaggio al centro delle sue composizioni, inseguendo così le teorie di una grande innovatrice come Laurie Anderson.
’Apocalypse Girl’ è una di quelle rappresentazioni originali che non temono repliche, la dimostrazione di come il pop possa ancora divenire un’arma sensuale e velenosa allo stesso tempo, ribadendo i suoi contatti con le avanguardie storiche. In questa ricerca estenuante Jenny riesce a dare forma compiuta ai suoi esperimenti canori, conquistando con un’arma rara: la familiarità.

 

 

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C Duncan, eclettismo pop

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‘Architect’ è l’album di debutto per Fat Cat  del nuovo talento scozzese di Glasgow C Duncan, i cui precedenti singoli (tutti presenti nell’album) hanno già raccolto ampi consensi tra stampa e radio locali. Il disco è stato scritto e registrato in solitaria proprio nella città natale in uno studio casalingo attrezzato per l’occasione, aggiungendo gradualmente strati sonori e singoli strumenti, in modo da garantire il giusto respiro alle composizioni. Come compositore il nostro ha una formazione classica – essendosi laureato al Royal Conservatoire di Scotland – un’altra chiara ed evidente influenza visibile nella sua scrittura, nel corpo delle tessiture e nei meticolosi arrangiamenti.
Figlio di due musicisti classici, Christopher è stato attratto in maniera molto persuasiva dall’universo indie ed alternative, esibendosi con certo profitto all’interno dei circuiti scolastici e successivamente al college. La sua preparazione accademica – viola e pianoforte i suoi strumenti di riferimento – gli ha permesso di approcciarsi con grande elasticità anche ai più ortodossi chitarra, basso e batteria, raggiungendo così una completezza quasi unica, nella marcia di avvicinamento alla definizione di one-man band. Ovviamente per le esibizioni dal vivo Christopher si è dovuto rivolgere a comprimari di fiducia, in modo da riprendere compiutamente le sue composizioni dal vivo. Il tour europeo ed americano che seguirà la pubblicazione del disco sarà un’ulteriore banco di prova. La copertina di ‘Architect’, una visione aerea dettagliata e molto stilosa delle strade di Glasgow, è stata creata dallo stesso Christopher, a dimostrazione di un talento universale. Del resto i suoi lavori sono stati esposti presso le migliori gallerie d’arte scozzesi.
Come si muove musicalmente il nostro ? Con grande naturalezza tra forme neo-classiche e pop contemporaneo, rivedendo peraltro certi recenti sviluppi folktronici ed il lascito etereo di una label come 4AD. Duncan cita nomi come The Knife, Flying Lotus, Cocteau Twins e Burt Bacharach tra le sue influenze, in realtà potremmo aggiungere anche Brian e Dennis Wilson ed il Four Tet più attratto dai sotterfugi sperimentali. Una rivelazione a tutto tondo, non c’è che dire.

 

 

 

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John Milk, treat me right

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John Milk è il vostro prossimo cocktail musicale preferito! Prendete una buona dose di soul americano dei sixties, aggiungete al mixer il meglio della musica funk del decennio successivo… scuotete questa bomba in maniera decisa, senza farvi mancare un pizzico di afrobeat ed un tocco di smooth jazz. Ci siamo, siete appena entrati nel territorio dei John Milk e del loro primo album ‘Treat Me Right’. Un disco che possibilmente vi accompagnerà sulla via lattea…Dopo aver collaborato con Big Single e Favorite Recordings, John Milk lavora in grande confidenza con Bruno “Patchworks” Hovart, uno dei più essenziali produttori francofoni. Concettualmente parlando John Milk incarna la ricerca abstract funk di un marchio storico come Stones Throw ed il tocco confidenziale di formazioni come Chin-Chin (Def Jux)  e Plantlife. Ispirato e graffiante, il suo suono pende il meglio senza fare alcuna distinzione, alimentando in maniera globale il concetto di groove. Nessuna sorpresa dunque che una label prestigiosa come la giapponese P-Vine Records li stia tenendo incessantemente d’occhio
Underdog Records è invece il marchio per cui la crew di Lione esordisce esordisce sulla lunga distanza, la loro musica è immersa nella cultura black, mantenendo elevato il livello di gioia e celebrazione. E’ una musica fresca ed avvincente, fatta di organi chiesastici e fianchi in movimento: una combinazione avvincente.

 

 

 

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Tess Parks meets Anton Newcombe

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Nata a Berlino agli albori del 2014 ed alimentata nel corso dell’estate successiva ‘I Declare Nothing’ è l’intensa collaborazione tra Tess Parks ed Anton Newcombe (Brian Jonestown Massacre), in uscita sul finire di giugno proprio per la label del guru psichedelico A Recordings. Il duo ha concepito l’album a quattro mani, con l’intento di portare in tour il progetto in Europa nel corso di quest’anno solare.
Canadese di Tortonto, Tess Parks si è trasferita all’età di 17 anni a Londra, con l’intento di studiare fotografia, prima di concentrasi anima e corpo sulla musica. Tanto da impressionare una leggenda dell’industria discografica come Alan McGee, fondatore del marchio Creation ed ora tenutario dell’indipendente 359 Music, con cui Tess ha proprio debuttato. La tenera psichedelia di ‘Blood Hot’ ha subito scomodato illustri paragoni, solleticando paralleli tanto con Patti Smith quanto con Hope Sandoval, a dimostrazione di un’ispirazione sopraffina per una 24enne debuttante. Vibrazioni che devono aver raggiunto nella sua nuova dimora berlinese il buon Newcombe, che dopo la pubblicazione di un 10 pollici limitato in occasione del Record Store Day, decide di dare ampia successione alla collaborazione.
In quel ‘nulla da dichiarare’ del titolo si coglie la sublime ironia degli autori, che ci invitano invece a ricercare tra le sconfinate movenze pop lisergiche del disco numerosi significati e contenuti. E’ un asilo in cui è lecito rasserenarsi, contemplando le pieghe di una musica che ha il potere sublime di inebriare. Due figure che impersonano diverse filosofie di vita, puntando però in un’unica direzione, quella dell’intrattenimento subliminale.

 

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La Batteria: scene of the crime

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EMANUELE BULTRINI – Chitarre elettriche, acustiche, classiche e mandolino
DAVID NERATTINI – Batteria e percussioni
PAOLO PECORELLI – Basso elettrico
STEFANO VICARELLI -Hammond C3, Clavinet, FenderRhodes, Clavicembalo, Celesta, Piano, Mellotron, Mini Moog, Prophet 5, Modular Synthesizer Dot Com System 66

Batteria  /batteˈria/
Gruppo di uomini e donne specializzati nel perseguire rapine a banche, uffici postali, gioiellerie. La struttura della «batteria» è orizzontale, con parità di grado fra uomini e donne ed è comunque quasi sempre finalizzata a pratiche anti-capitalistiche e anti-borghesi. L’aspetto illegale delle loro azioni si potrebbe collegare anche alle agitazioni politiche e sociali dell’epoca dei cosiddetti anni di piombo.  (Wikipedia)

Uniti dal comune amore per le colonne sonore e le sonorizzazioni italiane degli anni ’60 e ’70, i quattro componenti deLa Batteria sono veterani della scena musicale romana più trasversale, con esperienze che vanno dal post-rock progressivo (Fonderia), al pop (Otto Ohm, Angela Baraldi), al jazz sperimentale (I.H.C.), al hip hop (La Comitiva, Colle Der Fomento) fino alla world music (Orchestra di Piazza Vittorio). La band propone brani originali ispirati a quel suono e a quella scrittura così particolare che dominava la musica per immagini nel nostro paese negli anni che vanno dal 1968 al 1980, periodo caratterizzato dalla creatività e vocazione sperimentale di compositori come Ennio Morricone, Stelvio Cipriani, Alessandro Alessandroni, Bruno Nicolai e di gruppi come i Goblin e I Marc 4.
Registrato utilizzando tutti strumenti vintage, il primo album omonimo deLa Batteria non è però una mera operazione di revival di un’epoca d’oro, ma piuttosto il tentativo riuscito di riappropriarsi di uno stile e di un suono del passato per proiettarlo nella contemporaneità. Così fra le pieghe del loro prog-funk cinematico si possono ritrovare anche influenze che spaziano dal afrobeat, al hip hop, alla musica elettronica e al rock alternativo degli anni 80 e 90, tutte filtrate però attraverso una sensibilità ed un modo di scrivere e di suonare tipicamente italiani. Un disco concepito a Roma in quegli stessi ambienti in cui si producevano quelle colonne sonore e quei dischi di sonorizzazioni che oggi vengono ristampati ed apprezzati in ogni angolo del globo, nato proprio come album di library per conto dell’editore Romano Di Bari e la sua Flipper Music (casa di etichette culto come Deneb e Octopus) e masterizzato negli storici studi Telecinesound di Maurizio Majorana, bassista de I Marc 4.
Una continuità quindi non solo sonora con quel mondo, esempio di un’Italia che riusciva a bilanciare arte e artigianato senza dimenticare il fattore commerciale, provinciale per molti versi eppure più libera di osare e di mescolare le carte in tavola per creare qualcosa di nuovo e diverso. Anche a livello grafico l’album de La Batteria gioca con gli stessi elementi e lo stesso corto circuito fra presente e passato, grazie al logo molto cinematografico disegnato per la band da Luca Barcellona (aka Lord Bean) e alla cover realizzata da Emiliano Cataldo (aka Stand) ispirandosi a quelle dei vecchi album di sonorizzazioni italiane.

 

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Criminale Vol.3 & Vol. 4 – Italian Library music

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Due nuovi eccezionali volumi si aggiungo alla serie Criminale (sponsorizzata da Penny Records), che con una fantastica doppietta iniziale aveva riaperto l’incandescente immaginario delle libraries italiane, mai come ora corteggiate oltre i patri confini. Due volumi tematici – rispettivamente terzo e quarto – che portano i già esplicativi titoli di ‘Colpo Gobbo’ e ‘Violenza’, ci precipitano nuovamente in quelle atmosfere di suspense che tanto hanno informato il cinema ed il fumetto made in Italy, creando veri e propri standard nello sfaccettato universo delle colonne sonore e delle performance strumentali.
Il decennio 1968-1978 ha un’importanza particolare nella storia d’Italia del secolo scorso, un periodo di profonde trasformazioni sociali e culturali cominciato sull’onda delle proteste giovanili di Berkeley e del maggio francese ma sviluppatosi poi in direzioni possibili solo nel paese più contraddittorio e dietrologo del mondo occidentale. La perdita definitiva dell’innocenza di una nazione da una parte ancora ubriaca del boom economico e dall’altra pronta ad un salto nel buio verso una modernità talvolta incomprensibile e piena di variabili impazzite. Anni di strategia della tensione- aperti dalla strage di Piazza Fontana e conclusi dal rapimento e assassinio di Aldo Moro- riflessa in ogni aspetto della cultura e della società. Tensione palpabile, sonora, visiva.
La colonna sonora di tutto questo la scrivevano in tempo reale un pugno di compositori intraprendenti che, fra una session e l’altra per le grandi colonne sonore del cinema o per l’orchestra della RAI, faceva palestra creativa e qualche spicciolo incidendo instant album per gli editori di library. Fotografie sonore della società italiana di quegli anni, così realistiche da non assomigliare neanche un po’ a quelle che contemporaneamente scattavano i compositori francesi, tedeschi o inglesi ai loro rispettivi paesi.
Il suono che usciva dalla televisione italiana era affilato come una lametta e sapeva di piombo e lacrimogeni, con la chitarra fuzz che ulula e la batteria che picchia duro a musicare i tumulti di una società in ebollizione. Daniela Casa, Remigio Ducros, Alessandro Alessandroni, Stelvio Cipriani, Enzo Scoppa, Amedeo Tommasi, Franco Tamponi e tutti gli altri compositori qui presenti sono stati degli audio reporter, oltre che dei musicisti magnifici. Capaci di descrivere in pochi minuti le atmosfere che li circondavano e di evocarle utilizzando contemporaneamente la tradizione classica, quella delle avanguardie colte così come il rock psichedelico, il jazz, il funk e qualunque altra innovazione della musica popolare transitasse per le loro orecchie. Esortati ad essere dozzinali e poco originali- come imporrebbe l’etichetta della library- i compositori italiani invece rispondevano con estrema originalità ed una vocazione sperimentale fomentata da quello stesso bisogno di rinnovamento che animava l’intera nazione in quegli anni folli e per certi versi meravigliosi.

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Bisca new cover

Bisca, collezione 1982-1984

bisca1981
Mentre ascoltavo per l‘ennesima volta i brani di “Collezione 1982-1984” ho cercato in archivio i miei primi scritti sui Bisca, relativi proprio ai giorni dei quali questo CD offre testimonianza. Vincere il disagio del confronto con la mia zoppicante prosa giovanile non è stato uno scherzo, ma mi occorrevano un paio di stralci significativi e li ho trovati. Ad esempio, che il sound della band “oscilla fra un rap viscerale e convulso e un funk isterico e anticonvenzionale, con larghe concessioni a soluzioni jazzate”; oppure, che “i testi, in inglese, italiano e napoletano, hanno un ruolo di secondo piano, ma contribuiscono efficacemente a sottolineare l’ossessività delle composizioni attraverso una ripetitività di frasi e parole che a tratti rasenta la paranoia”. Tutto incontrovertibile anche a distanza di oltre tre decenni, ma il documento più eloquente rinvenuto nella mia “capsula del tempo” è la foto in bianco/nero scattata da un Cesare Accetta non ancora consacratosi al cinema. Nell‘organico a sei del mini-LP d‘esordio, i Bisca vi appaiono ribelli e assieme eleganti, sullo stile di alcuni esponenti dell‘area no wave newyorkese tipo James Chance & The Contortions; brillante il contrasto fra il look da blusons noirs e l‘ambiente con damigiane e stendini, un po‘ come farsi ritrarre in giacca e cravatta fra la spazzatura di un vicolo della Grande Mela.
In quel primo scorcio di anni ‘80, il collegamento tra Napoli e la megalopoli americana non suonava forzato, tutt‘altro; il meticciato culturale, il disagio e la vivacità del capoluogo campano sembravano affini, naturalmente mutatis mutandis, a quelli del Bronx o della Bowery di allora. Logico, pertanto, che qui da noi fossero in molti a vedere nei Bisca una sorta di equivalente tricolore dei no wavers, benché non privo di contatti con altre realtà coeve, a partire dal Pop Group di Mark Stewart. Magmatica e incandescente come il cuore del Vesuvio, la loro musica avvolgeva e ustionava, su disco e (soprattutto) sul palco: un sabba infernale all‘insegna di ritmi implacabili, frustate di chitarre, sax al vetriolo e prepotenze canore, dalle cui atmosfere torbide e minacciose trasparivano comunque ricercatezza e disciplina. Funk-punk-jazz al fulmicotone, in ogni senso stupefacente. E dire che l‘ensemble, nel 1981 in cui si era affacciato sulle scene, era dedito allo ska, da cui la scelta di operare – ma durò pochissimo – come Biska; chi l‘avrebbe mai detto, che appena un anno dopo avrebbe elaborato una sintesi così devastante, e che tre decenni abbondanti più tardi, seppure con “solo” due superstiti del nucleo originario, sarebbe stato ancora sulle barricate a far levare alta la sua voce sempre fieramente antagonista?
Pur prediligendo i toni lividi, dal 1981 a oggi i Bisca ne hanno combinate di tutti i colori, e il loro percorso rimane a più livelli esemplare. Doveroso ricordarne e celebrarne per la prima volta in formato digitale, allora, gli straordinari inizi, con un CD di studio che raccoglie tutto quello che fu pubblicato su vinile fra il 1982 e il 1984 più due inediti e un CD dal vivo – fino a oggi mai diffuso in alcun formato – che coglie i ragazzi alla Rôte Fabrik di Zurigo nel 1983. Sono quasi due ore e mezza di sudore e sangue, di rabbia e divertimento, di intensità e catarsi, delle quali gli anni non hanno soffocato l‘energia propulsiva ed eversiva; senza ombra di dubbio, uno degli apici espressivi e artistici di quel fenomeno poliedrico e purtroppo sommerso che la Storia ha etichettato come “new wave italiana”.
Federico Guglielmi, marzo 2015

http://www.youtube.com/watch?v=o0rcZ5_EhOI

watkins

Watkins Family Hour, Bluegrass Con Fiona Apple

watkinsEsce il 24 Luglio ‘Watkins Family Hour’ per Family Hour Records/Thirty Tigers il compendio delle migliori esibizioni dell’ultima annata del famoso live show di Sara e Sean Watkins dei Nickel Creek. La Watkins Family è un progetto live dei fratelli Sara e Sean Watkins, membri effettivi degli eroi bluegrass-indie Nickel Creek e amici turnisti dei The Decemberists. Watkins Family Hour nasce dallo show mensile che il duo ha realizzato per il Largo Club di Los Angelese, show basato su performance dal vivo di sole cover con ospiti d’eccezione del livello di Jackson Browne, Nikka Costa, Susanna Hoffs, John C. Reilly e Nick Kroll . Il disco è stato registrato durante alcune session del WFH del 2014 e 2015 con la partecipazione di Fiona Apple e Benmont Tench (tastierista di Tom Petty) come guest fissi all’interno della band. Si passa dall’indimenticabile ‘Not In Nottingham’ dal disneyano Robin Hood, al classico ‘Where I Ought To Be’ di Skeeter Davis reinterpretata dalla bellissima voce di Fiona Apple, fino a ‘Going Going Gone’ di Bob Dylan’, ‘Brokedown Palace’ dei Grateful Dead e la ciliegina punk di ‘The King of 12 Oz.’ dei Fear. Watkins Family Hour è bluegrass progressive all’ennesima potenza, un album in cui l’old school delle interpretazioni in presa diretta si fonde con un repertorio di cover classico aggiornato in chiave moderna.

 

 

 

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Night Beds, Ivywild

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Night Beds, il progetto musicale del 26enne Winston Yellen, è in procinto di lanciare il suo secondo album, Ivywild, in uscita il 7 di agosto per Dead Oceans. Il seguito all’acclamato debutto del 2013, Country Sleep, Ivywild è una mesmerica collezione di brani dal retrogusto malinconico e dal piglio sottilmente R&B.  La gamma di ascolti del nostro ha del resto condizionato le sue scelte più recenti, andando a cristallizzare una serie di ascolti eclettici che in prima fila prevedono jazz e musica di orientamento groovy. Per un artista che senza colpo ferire cita Bill Evans e J Dilla esiste per l’appunto un filo rosso costituito da quelle che Yellen ama definire ‘tristi jam sexy’, ispirate non a caso da una lunga relazione amorosa recentemente estinta. Una genesi che va rintracciata nelle notti all’addiaccio di Nashville, dove Yellen ha saggiato per la prima volta il piatto della metamorfosi hip hop: Yeezus di Kanye West.

Un team di circa 25 musicisti ha preso parte alla creazione del disco, particolarmente azzeccati gli ingressi del fratello minore Abe Yellen, peraltro suo migliore amico. Ulteriori contributi vocali arrivano da Heather Hibbard, vocalist del Maine che compare in 8 delle 16 tracce del disco. Decisamente fuori dai canoni  il loro incontro: Yellen la scova su you tube in un video amatoriale, in cui eseguiva in maniera impeccabile proprio un brano dei Night Beds.

La voce rimane lo strumento principe per Yellen, uno stile che sa essere contemplativo e soulful nella stessa misura, rappresentando così il centro di gravità di un disco che viaggia su arrangiamenti liquidi e parsimoniosi, rivisitando movenze finemente jazzy ed elettroniche in un’ ottica polverosa, vintage. Un disco che nella sua sobrietà ha la capacità di condurci per mano verso orizzonti inesplorati, ridefinendo l’idea di una canzone d’autore che incontra l’avanguardia nel rispetto delle tradizioni canore. Una prova magistrale che alimenterà a dismisura la stima nel giovane uomo.