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RP Boo, strictly business

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Non siamo di fronte ad una svolta epocale, ma quanto meno di fronte alla celebrazione di un piccolo mito locale, quello del produttore di Chicago RP Boo – all’anagrafe Kavain Space – antesignano della rivoluzione footwork, una delle più eccitanti realtà della musica ritmica contemporanea. Il suo ritorno su Planet Mu fa seguito ad un debutto strabiliante e ad una raccolta non meno sorprendente nel tracciare le linee guida di un suono corrugato, fatto di numerosi scatti ed avvincenti sovrapposizioni.
‘Fingers, Bank Pads & Shoe Prints’ è la più logica successione all’esordio lungo ‘Legacy’, frutto comunque di un lavoro capillare consolidatosi nel corso degli anni, come del resto dimostrato dall’Ep a sei tracce ‘ Classics’,  che prevedeva addirittura un estratto del 1997 a titolo ‘Baby Come On’. Quasi 20 anni di celere attività sotterranea, ma nulla di questo potevo prepararci all’esplosività del nuovo capitolo discografico, davvero un florilegio di suoni e dinamiche che sembrano portarsi dietro reminiscenze hip-hop e black in genere.  Non meravigliatevi dunque se all’appello immaginario saranno presenti i nomi di Jungle Brothers e Dj Assault. Kavain mette in campo non solo la sua esperienza dietro al banco di regia, ma anche sul dancefloor, ripercorrendo in maniera epocale la crescita come ballerino di stretta osservanza footwork. Dettaglio non trascurabile, se pensiamo a questa disciplina come a un estensione ‘di strada’ della musica, figlia a suo modo dell’elastica breakdance.
Kevin parla di battaglie in circolo, riportando il sano spirito di confronto che da sempre ha stimolato gli habituè del circuito. Quando il nostro abbandona i piatti utilizza la stessa energia per confrontarsi con il pubblico. E’ un impegno deciso e lui è piuttosto forte nell’incoraggiare gli altri, sollevandoli spesso dalle proprie incertezze.

 

 

 

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Destoyer new album, Poison Season

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Il 28 Agosto esce per Merge/Dead Oceans ‘Poison Season’, nuovo album dei Destroyer, progetto dell’artista canadese Dan Bejar. Dan torna dopo il grande successo di pubblico e critica legato a ‘Kaputt’, tra i dischi migliori degli ultimi 10 anni per Pitchfork, Mojo e El Pais. Con il precedente album ‘Kaputt’ i Destroyer avevano dato libero sfogo al loro amore per il pop sofisticato (sophisti-pop) dei primi anni ’70, mentre con il nuovo ‘Poison Season’ l’enciclopedismo musicale di Dan ci riporta allo street rock orchestrale dello Springsteen di ‘Born To Run’ e del Bowie di ‘Young Americans’. ‘Poison Season’ è il decimo full lenght a nome Destroyer per Dan Bajer, dopo le collaborazioni con The New Pornographers e Swan Lake e sicuramente uno dei dischi più attesi dell’anno nella scena indie dopo il grande successo seguito alla pubblicazione nel 2011 di ‘Kaputt’. Non dare una chance a Dan Bajer sarebbe un errore madornale, uno degli autori più influenti degli ultimi dieci anni, capace di citare e contestualizzare il meglio della musica degli ultimi 40 anni.

 

 

 

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Gardens & Villa, a pop supreme

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‘Music For Dogs’ è un album profondamente personale in cui i Gardens & Villa celebrano il loro nuovo domicilio losangeleno e tutti gli avanzamenti tecnologici che hanno investito la cultura contemporanea, non ultima quella musicale. L’adesione affatto sistematica alle teorie della new age ed ai culti religiosi orientali hanno dettato la strada per i loro primi due lavori sulla lunga distanza, l’omonimo del 2011 e Dunes del 2014. Per i nostri eroi l’ancoraggio alle tradizioni ha una lettura biunivoca: attitudinale e compositiva. L’insistente richiamo alle melodie sixties ed i numerosi intrecci celestiali tra voci e sei corde parlando la lingua di un personale revival musicale.
Nessuna sorpresa che qualcuno in maniera azzardata lo abbia definito zen pop nichilista, nel puro rispetto della contraddizione.  Chris Lynch ed Adam Rasmussen rimangono al timone incorporando l’esperienza di un produttore visionario quale Jacob Portrait e di una navigata sezione ritmica composta da Dusty Ineman (batteria) e Shane McKillop (basso). La capacità di G&V è tutta nel penetrare la corteccia cerebrale, servendosi di arrangiamenti lussuriosi e di melodie che appunto hanno la brillantezza di conquistare in maniera subdola. Per avere un quadro completo del loro modus operandi sarebbe sufficiente affacciarsi sulle sintomatiche linee di basso e pianoforte di “Everybody”, un brano che traduce in suoni tutta l’ansia del 21simo secolo, prendendo a campione il voyeurismo ed il desiderio di controllo tipici del nostro tempo.  Estasi alternative pop nel sublime canto dell’ indie elettronico, Gardens & Villa conoscono la via d’accesso al paradiso.

 

 

 

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Chelsea Wolfe, l’abisso del subconscio

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Chelsea Wolfe ritorna con il suo quinto album da studio, Abyss previsto per il 7 di agosto su Sargent House. Nel corso di 4 album la nostra ha messo in campo una tensione costante, fatta di distorsioni e nebulose territoriali dove le lunghe ombre si allungano oltre il confine del sublime, conservando un’infinita grazia. Se fino ad ora le prove e le tribolazioni della Wolfe – sempre a cavallo tra sogno e realtà – hanno rappresentato un’influenza subconscia sul suo lavoro, con Abyss si confronta deliberatamente con questi confini e plasma quella che è una colonna sonora da lei stessa descritta come “oltre la nebbia . . . una tempesta invertita . . . l’oscurità rovesciata . . . l’abisso del tempo.”
Il suo materiale è sempre apparso intensamente privato, dalle produzioni casalinghe quasi ai confini col voyeuristico dell’album di debutto The Grime and the Glow  sino alle rigide tematiche ed atmosfere del penultimo parto Pain Is Beauty del 2013. “Abyss è stato concepito con lo scopo di replicare lo stato del sonno REM, quando stai sognando e brevemente ti svegli ricadendo immediatamente nello stesso sogno, nuotando velocemente nel tuo stesso subconscio” dice la Wolfe. Per rappresentare adeguatamente questo mondo di mezzo, ha ribadito la sua collaborazione con il polistrumentista e co-autore Ben Chisholm e con il batterista Dylan Fujioka, contando peraltro sul figlio d’arte ed ex-Gowns Ezra Buchla alla viola e  Mike Sullivan (Russian Circles) alla chitarra. L’ensemble si è diretto a Dallas, TX per registrare con il produttore John Congleton (Swans, St. Vincent). Un solo diktat in mente, le parole del designer Yohji Yamamoto: “La perfezione è brutta. Alle volte nelle cose prodotte dagli essere umani voglio vedere le ferite, il fallimento, il disordine e la distorsione” Le 11 canzoni che risultano da questo sforzo collettivo riflettono questa filosofia, confrontandosi coi numerosi aspetti della psiche ed evidenziando la fragilità del nostro essere, l’intimità, la quieta passione, l’ansia e la profonda bramosia.
Il disco si apre con il disorientante barcollare di “Carrion Flowers”, dove la Wolfe rilascia un’ipnotica melodia vocale oltre un monotono tonfo simil-industriale, come in un raga indiano costruito attorno ad una singola nota. Per “Iron Moon” la band spinge oltre gli estremi le sue strategie che prevedono un andamento forte-piano, alternandosi tra una polverosa ballata e slanci simil-doom. Altrove abbiamo la ninna-nanna di “Maw” e le sublimi aperture acustiche di “Crazy Love”. Ma nel mezzo trova alloggio “After The Fall”, proprio il brano più rappresentativo del disco con i sui brutali cambi tonali e la progressiva sequenza degli accordi che permettono alla Wolfe di raggiungere un climax interpretativo che molto deve alla sua fascinazione per Memories, Dreams, Reflections  di Carl Jung.
Tutti gli argomenti correlati al sonno ed al sogno hanno da sempre inseguito l’oscura protagonista, . questioni che sono divenute identitarie e da sempre hanno costituito il corpo su cui montare le liriche ad effetto dei singoli album. Ed Abyss più di ogni altra cosa rappresenta questa dicotomia tra irreale e concreto, una battaglia tra coscienza e ricordi remoti.

 

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Jenny Hval, l’apocalisse della ragazza

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Per chi abitualmente frequenta il catalogo Rune Grammofon e le vicissitudini della musica indipendente scandinava, il nome di Jenny Hval non suonerà certo inedito. Questa è la sua – letterale – benedizione internazionale sotto l’egida di Sacred Bones, che ne pubblica la nuova fatica discografica. Il suo nuovo album si inaugura con una citazione del poeta danese Mette Moestrup, e continua affacciandosi oltre l’abisso. La ragazza dell’apocalisse riportata nel titolo, rivela una narrativa allucinante sospesa tra realtà e finzione, un’ opera che del sogno febbrile fa tesoro, indagando in quella colorata sospensione spazio-temporale tra morte e rinascita. Il tutto raccontato con il linguaggio trasgressivo della musica pop.
Quando la leggenda noise norvegese Lasse Marhaug ha intervistato Jenny Hval per la sua fanzine nel 2014, hanno iniziato a discorrere di film e la conversazione si è rivelata così interessante da spingere la nostra a chiedere una supervisione allo stesso Marhaug per il suo album successivo. L’argomento cinematografico si è rivelato un punto focale nella produzione da studio. Le canzoni della Hval si sono progressivamente evolute dal corpo gelido costituto da sparute forme melodiche e di loop al computer, grazie ai contributi dei colleghi usuali Håvard Volden e Kyrre Laastad. Fino ad arrivare alle esplorazioni totali del corpo musicale con l’ingresso di esterni quali Øystein Moen (Jaga Jazzist/Puma), Thor Harris (Swans), e dei campioni della musica da camera improvvisata  Okkyung Lee (cello) e Rhodri Davis (arpa). Tutti questi musicisti hanno almeno due cose in comune: sono feroci nel loro approccio pur conservando un grande orecchio per l’intimità, e la loro capacità è proprio nell’udire musica tanto nella chiusura di una valigia quanto in una melodia meravigliosa. Questo disco è così una bestia, almeno visivamente parlando. Immaginate una vecchia pellicola di fantascienza dove le ragazze del coro gospel sono in realtà delle eroine punk che comandano il mondo con i loro impulsi auto-erotici. Jenny Hval ha sviluppato un suo stile unico e per certi versi autobiografico, a partire dal suo debutto nel 2006. Ha toccato vertici artistici importanti nel 2013 con ‘Innocence Is Kinky’ (Rune Grammofon), ponendo in maniera definitiva il linguaggio al centro delle sue composizioni, inseguendo così le teorie di una grande innovatrice come Laurie Anderson.
’Apocalypse Girl’ è una di quelle rappresentazioni originali che non temono repliche, la dimostrazione di come il pop possa ancora divenire un’arma sensuale e velenosa allo stesso tempo, ribadendo i suoi contatti con le avanguardie storiche. In questa ricerca estenuante Jenny riesce a dare forma compiuta ai suoi esperimenti canori, conquistando con un’arma rara: la familiarità.

 

 

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C Duncan, eclettismo pop

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‘Architect’ è l’album di debutto per Fat Cat  del nuovo talento scozzese di Glasgow C Duncan, i cui precedenti singoli (tutti presenti nell’album) hanno già raccolto ampi consensi tra stampa e radio locali. Il disco è stato scritto e registrato in solitaria proprio nella città natale in uno studio casalingo attrezzato per l’occasione, aggiungendo gradualmente strati sonori e singoli strumenti, in modo da garantire il giusto respiro alle composizioni. Come compositore il nostro ha una formazione classica – essendosi laureato al Royal Conservatoire di Scotland – un’altra chiara ed evidente influenza visibile nella sua scrittura, nel corpo delle tessiture e nei meticolosi arrangiamenti.
Figlio di due musicisti classici, Christopher è stato attratto in maniera molto persuasiva dall’universo indie ed alternative, esibendosi con certo profitto all’interno dei circuiti scolastici e successivamente al college. La sua preparazione accademica – viola e pianoforte i suoi strumenti di riferimento – gli ha permesso di approcciarsi con grande elasticità anche ai più ortodossi chitarra, basso e batteria, raggiungendo così una completezza quasi unica, nella marcia di avvicinamento alla definizione di one-man band. Ovviamente per le esibizioni dal vivo Christopher si è dovuto rivolgere a comprimari di fiducia, in modo da riprendere compiutamente le sue composizioni dal vivo. Il tour europeo ed americano che seguirà la pubblicazione del disco sarà un’ulteriore banco di prova. La copertina di ‘Architect’, una visione aerea dettagliata e molto stilosa delle strade di Glasgow, è stata creata dallo stesso Christopher, a dimostrazione di un talento universale. Del resto i suoi lavori sono stati esposti presso le migliori gallerie d’arte scozzesi.
Come si muove musicalmente il nostro ? Con grande naturalezza tra forme neo-classiche e pop contemporaneo, rivedendo peraltro certi recenti sviluppi folktronici ed il lascito etereo di una label come 4AD. Duncan cita nomi come The Knife, Flying Lotus, Cocteau Twins e Burt Bacharach tra le sue influenze, in realtà potremmo aggiungere anche Brian e Dennis Wilson ed il Four Tet più attratto dai sotterfugi sperimentali. Una rivelazione a tutto tondo, non c’è che dire.

 

 

 

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Night Beds, Ivywild

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Night Beds, il progetto musicale del 26enne Winston Yellen, è in procinto di lanciare il suo secondo album, Ivywild, in uscita il 7 di agosto per Dead Oceans. Il seguito all’acclamato debutto del 2013, Country Sleep, Ivywild è una mesmerica collezione di brani dal retrogusto malinconico e dal piglio sottilmente R&B.  La gamma di ascolti del nostro ha del resto condizionato le sue scelte più recenti, andando a cristallizzare una serie di ascolti eclettici che in prima fila prevedono jazz e musica di orientamento groovy. Per un artista che senza colpo ferire cita Bill Evans e J Dilla esiste per l’appunto un filo rosso costituito da quelle che Yellen ama definire ‘tristi jam sexy’, ispirate non a caso da una lunga relazione amorosa recentemente estinta. Una genesi che va rintracciata nelle notti all’addiaccio di Nashville, dove Yellen ha saggiato per la prima volta il piatto della metamorfosi hip hop: Yeezus di Kanye West.

Un team di circa 25 musicisti ha preso parte alla creazione del disco, particolarmente azzeccati gli ingressi del fratello minore Abe Yellen, peraltro suo migliore amico. Ulteriori contributi vocali arrivano da Heather Hibbard, vocalist del Maine che compare in 8 delle 16 tracce del disco. Decisamente fuori dai canoni  il loro incontro: Yellen la scova su you tube in un video amatoriale, in cui eseguiva in maniera impeccabile proprio un brano dei Night Beds.

La voce rimane lo strumento principe per Yellen, uno stile che sa essere contemplativo e soulful nella stessa misura, rappresentando così il centro di gravità di un disco che viaggia su arrangiamenti liquidi e parsimoniosi, rivisitando movenze finemente jazzy ed elettroniche in un’ ottica polverosa, vintage. Un disco che nella sua sobrietà ha la capacità di condurci per mano verso orizzonti inesplorati, ridefinendo l’idea di una canzone d’autore che incontra l’avanguardia nel rispetto delle tradizioni canore. Una prova magistrale che alimenterà a dismisura la stima nel giovane uomo.