Sufjan Stevens – ‘Carrie Lowell’

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Ci riferiamo a questi tempi come aggressivi; l ‘incomunicabilità, il continuo affannarsi, la ricerca di un intimo benessere a discapito del prossimo: tutti elementi che in maniera repentina descrivono la nostra buia modernità. La musica per Sufjan Stevens è da sempre lo specchio di una natura distante dalle psicosi quotidiane, un’oasi di pace in cui riflettere e procreare. Lontano dall’asfissiante rincorrersi delle notizie mattutine, anni luce dal traffico frenetico della metropoli, un luogo della mente dove le melodie vanno ad adagiarsi sul pentagramma, al fine di costituire un invidiabile idillio.

Ci vuole un’attenzione estrema per sintonizzarsi con il mondo di Sufjan Stevens, fuori dalla porta occorre lasciare ogni stato ansiogeno, perché siamo al cospetto della terapia più docile, prossimi a quegli umori materni che usavano cullarci nottetempo. E’ un ritorno deciso alla scrittura più soffusa ed acustica, dopo gli esperimenti multimediali che hanno portato il nostro a confrontarsi a tutto tondo con l’avanguardia, approdando con successo anche nel circuito dei teatri off della East Coast. Finanche gli esperimenti di natura più elettronica ed r&b possono essere messi in disparte, della liaison con Son Lux e Serengeti non c’è infatti traccia in questo ‘Carrie & Lowell’. Annunciato in pompa magna per fine marzo sul marchio di casa Ashtmatic Kitty.

Torna al suo universo mistico ed al contempo casalingo Sufjan, usando quelle stesse metafore che lo hanno portato al successo indipendente. Un disco rassicurante, che sembra stridere con l’angustia dei tempi moderni, un lavoro che trasmette fiducia, immediatamente. Le buone vibrazioni verranno così accolte con un sospiro di sollievo dai fan della prima ora, i primi a sentire la necessità di un ritorno all’intimismo primigenio, a quell’essenzialità che ne aveva fatto un piccolo principe nello sterminato campo degli autori contemporanei. Che nessuno si azzardi a mettere al bando la filosofia, quelli che assaporerete sono ben 44 minuti focalizzati sulla mortalità, la memoria e la fiducia. Sono undici canzoni – comunemente intese – ed ognuna di esse ricorre ad una fragile melodia, fino a trascendere in una solenne inno moderno. Racconta gli affronti e l’impurità di questo universo, dove la tecnologia spesso diviene una scusante (fonte di enormi distrazioni), dove il sesso cibernetico assume piaghe sempre più tragiche e dove l’idea del mito e del miracolo è sempre più soffocata dall’incontrastato ego dei singoli. Le parole di Sufjan sono un incoraggiamento, un messaggio di speranza in un mondo che continua a roteare follemente su sè stesso. L’atmosfera elegiaca del disco ci consegna uno degli autori più puri del nostro tempo, un divino cantastorie, un usignolo la cui buona novella timidamente si deposita sullo zerbino di casa.

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