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Tess Parks meets Anton Newcombe

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Nata a Berlino agli albori del 2014 ed alimentata nel corso dell’estate successiva ‘I Declare Nothing’ è l’intensa collaborazione tra Tess Parks ed Anton Newcombe (Brian Jonestown Massacre), in uscita sul finire di giugno proprio per la label del guru psichedelico A Recordings. Il duo ha concepito l’album a quattro mani, con l’intento di portare in tour il progetto in Europa nel corso di quest’anno solare.
Canadese di Tortonto, Tess Parks si è trasferita all’età di 17 anni a Londra, con l’intento di studiare fotografia, prima di concentrasi anima e corpo sulla musica. Tanto da impressionare una leggenda dell’industria discografica come Alan McGee, fondatore del marchio Creation ed ora tenutario dell’indipendente 359 Music, con cui Tess ha proprio debuttato. La tenera psichedelia di ‘Blood Hot’ ha subito scomodato illustri paragoni, solleticando paralleli tanto con Patti Smith quanto con Hope Sandoval, a dimostrazione di un’ispirazione sopraffina per una 24enne debuttante. Vibrazioni che devono aver raggiunto nella sua nuova dimora berlinese il buon Newcombe, che dopo la pubblicazione di un 10 pollici limitato in occasione del Record Store Day, decide di dare ampia successione alla collaborazione.
In quel ‘nulla da dichiarare’ del titolo si coglie la sublime ironia degli autori, che ci invitano invece a ricercare tra le sconfinate movenze pop lisergiche del disco numerosi significati e contenuti. E’ un asilo in cui è lecito rasserenarsi, contemplando le pieghe di una musica che ha il potere sublime di inebriare. Due figure che impersonano diverse filosofie di vita, puntando però in un’unica direzione, quella dell’intrattenimento subliminale.

 

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La-Batteria-345x354

La Batteria: scene of the crime

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EMANUELE BULTRINI – Chitarre elettriche, acustiche, classiche e mandolino
DAVID NERATTINI – Batteria e percussioni
PAOLO PECORELLI – Basso elettrico
STEFANO VICARELLI -Hammond C3, Clavinet, FenderRhodes, Clavicembalo, Celesta, Piano, Mellotron, Mini Moog, Prophet 5, Modular Synthesizer Dot Com System 66

Batteria  /batteˈria/
Gruppo di uomini e donne specializzati nel perseguire rapine a banche, uffici postali, gioiellerie. La struttura della «batteria» è orizzontale, con parità di grado fra uomini e donne ed è comunque quasi sempre finalizzata a pratiche anti-capitalistiche e anti-borghesi. L’aspetto illegale delle loro azioni si potrebbe collegare anche alle agitazioni politiche e sociali dell’epoca dei cosiddetti anni di piombo.  (Wikipedia)

Uniti dal comune amore per le colonne sonore e le sonorizzazioni italiane degli anni ’60 e ’70, i quattro componenti deLa Batteria sono veterani della scena musicale romana più trasversale, con esperienze che vanno dal post-rock progressivo (Fonderia), al pop (Otto Ohm, Angela Baraldi), al jazz sperimentale (I.H.C.), al hip hop (La Comitiva, Colle Der Fomento) fino alla world music (Orchestra di Piazza Vittorio). La band propone brani originali ispirati a quel suono e a quella scrittura così particolare che dominava la musica per immagini nel nostro paese negli anni che vanno dal 1968 al 1980, periodo caratterizzato dalla creatività e vocazione sperimentale di compositori come Ennio Morricone, Stelvio Cipriani, Alessandro Alessandroni, Bruno Nicolai e di gruppi come i Goblin e I Marc 4.
Registrato utilizzando tutti strumenti vintage, il primo album omonimo deLa Batteria non è però una mera operazione di revival di un’epoca d’oro, ma piuttosto il tentativo riuscito di riappropriarsi di uno stile e di un suono del passato per proiettarlo nella contemporaneità. Così fra le pieghe del loro prog-funk cinematico si possono ritrovare anche influenze che spaziano dal afrobeat, al hip hop, alla musica elettronica e al rock alternativo degli anni 80 e 90, tutte filtrate però attraverso una sensibilità ed un modo di scrivere e di suonare tipicamente italiani. Un disco concepito a Roma in quegli stessi ambienti in cui si producevano quelle colonne sonore e quei dischi di sonorizzazioni che oggi vengono ristampati ed apprezzati in ogni angolo del globo, nato proprio come album di library per conto dell’editore Romano Di Bari e la sua Flipper Music (casa di etichette culto come Deneb e Octopus) e masterizzato negli storici studi Telecinesound di Maurizio Majorana, bassista de I Marc 4.
Una continuità quindi non solo sonora con quel mondo, esempio di un’Italia che riusciva a bilanciare arte e artigianato senza dimenticare il fattore commerciale, provinciale per molti versi eppure più libera di osare e di mescolare le carte in tavola per creare qualcosa di nuovo e diverso. Anche a livello grafico l’album de La Batteria gioca con gli stessi elementi e lo stesso corto circuito fra presente e passato, grazie al logo molto cinematografico disegnato per la band da Luca Barcellona (aka Lord Bean) e alla cover realizzata da Emiliano Cataldo (aka Stand) ispirandosi a quelle dei vecchi album di sonorizzazioni italiane.

 

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Criminale Vol.3 & Vol. 4 – Italian Library music

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Due nuovi eccezionali volumi si aggiungo alla serie Criminale (sponsorizzata da Penny Records), che con una fantastica doppietta iniziale aveva riaperto l’incandescente immaginario delle libraries italiane, mai come ora corteggiate oltre i patri confini. Due volumi tematici – rispettivamente terzo e quarto – che portano i già esplicativi titoli di ‘Colpo Gobbo’ e ‘Violenza’, ci precipitano nuovamente in quelle atmosfere di suspense che tanto hanno informato il cinema ed il fumetto made in Italy, creando veri e propri standard nello sfaccettato universo delle colonne sonore e delle performance strumentali.
Il decennio 1968-1978 ha un’importanza particolare nella storia d’Italia del secolo scorso, un periodo di profonde trasformazioni sociali e culturali cominciato sull’onda delle proteste giovanili di Berkeley e del maggio francese ma sviluppatosi poi in direzioni possibili solo nel paese più contraddittorio e dietrologo del mondo occidentale. La perdita definitiva dell’innocenza di una nazione da una parte ancora ubriaca del boom economico e dall’altra pronta ad un salto nel buio verso una modernità talvolta incomprensibile e piena di variabili impazzite. Anni di strategia della tensione- aperti dalla strage di Piazza Fontana e conclusi dal rapimento e assassinio di Aldo Moro- riflessa in ogni aspetto della cultura e della società. Tensione palpabile, sonora, visiva.
La colonna sonora di tutto questo la scrivevano in tempo reale un pugno di compositori intraprendenti che, fra una session e l’altra per le grandi colonne sonore del cinema o per l’orchestra della RAI, faceva palestra creativa e qualche spicciolo incidendo instant album per gli editori di library. Fotografie sonore della società italiana di quegli anni, così realistiche da non assomigliare neanche un po’ a quelle che contemporaneamente scattavano i compositori francesi, tedeschi o inglesi ai loro rispettivi paesi.
Il suono che usciva dalla televisione italiana era affilato come una lametta e sapeva di piombo e lacrimogeni, con la chitarra fuzz che ulula e la batteria che picchia duro a musicare i tumulti di una società in ebollizione. Daniela Casa, Remigio Ducros, Alessandro Alessandroni, Stelvio Cipriani, Enzo Scoppa, Amedeo Tommasi, Franco Tamponi e tutti gli altri compositori qui presenti sono stati degli audio reporter, oltre che dei musicisti magnifici. Capaci di descrivere in pochi minuti le atmosfere che li circondavano e di evocarle utilizzando contemporaneamente la tradizione classica, quella delle avanguardie colte così come il rock psichedelico, il jazz, il funk e qualunque altra innovazione della musica popolare transitasse per le loro orecchie. Esortati ad essere dozzinali e poco originali- come imporrebbe l’etichetta della library- i compositori italiani invece rispondevano con estrema originalità ed una vocazione sperimentale fomentata da quello stesso bisogno di rinnovamento che animava l’intera nazione in quegli anni folli e per certi versi meravigliosi.

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Bisca new cover

Bisca, collezione 1982-1984

bisca1981
Mentre ascoltavo per l‘ennesima volta i brani di “Collezione 1982-1984” ho cercato in archivio i miei primi scritti sui Bisca, relativi proprio ai giorni dei quali questo CD offre testimonianza. Vincere il disagio del confronto con la mia zoppicante prosa giovanile non è stato uno scherzo, ma mi occorrevano un paio di stralci significativi e li ho trovati. Ad esempio, che il sound della band “oscilla fra un rap viscerale e convulso e un funk isterico e anticonvenzionale, con larghe concessioni a soluzioni jazzate”; oppure, che “i testi, in inglese, italiano e napoletano, hanno un ruolo di secondo piano, ma contribuiscono efficacemente a sottolineare l’ossessività delle composizioni attraverso una ripetitività di frasi e parole che a tratti rasenta la paranoia”. Tutto incontrovertibile anche a distanza di oltre tre decenni, ma il documento più eloquente rinvenuto nella mia “capsula del tempo” è la foto in bianco/nero scattata da un Cesare Accetta non ancora consacratosi al cinema. Nell‘organico a sei del mini-LP d‘esordio, i Bisca vi appaiono ribelli e assieme eleganti, sullo stile di alcuni esponenti dell‘area no wave newyorkese tipo James Chance & The Contortions; brillante il contrasto fra il look da blusons noirs e l‘ambiente con damigiane e stendini, un po‘ come farsi ritrarre in giacca e cravatta fra la spazzatura di un vicolo della Grande Mela.
In quel primo scorcio di anni ‘80, il collegamento tra Napoli e la megalopoli americana non suonava forzato, tutt‘altro; il meticciato culturale, il disagio e la vivacità del capoluogo campano sembravano affini, naturalmente mutatis mutandis, a quelli del Bronx o della Bowery di allora. Logico, pertanto, che qui da noi fossero in molti a vedere nei Bisca una sorta di equivalente tricolore dei no wavers, benché non privo di contatti con altre realtà coeve, a partire dal Pop Group di Mark Stewart. Magmatica e incandescente come il cuore del Vesuvio, la loro musica avvolgeva e ustionava, su disco e (soprattutto) sul palco: un sabba infernale all‘insegna di ritmi implacabili, frustate di chitarre, sax al vetriolo e prepotenze canore, dalle cui atmosfere torbide e minacciose trasparivano comunque ricercatezza e disciplina. Funk-punk-jazz al fulmicotone, in ogni senso stupefacente. E dire che l‘ensemble, nel 1981 in cui si era affacciato sulle scene, era dedito allo ska, da cui la scelta di operare – ma durò pochissimo – come Biska; chi l‘avrebbe mai detto, che appena un anno dopo avrebbe elaborato una sintesi così devastante, e che tre decenni abbondanti più tardi, seppure con “solo” due superstiti del nucleo originario, sarebbe stato ancora sulle barricate a far levare alta la sua voce sempre fieramente antagonista?
Pur prediligendo i toni lividi, dal 1981 a oggi i Bisca ne hanno combinate di tutti i colori, e il loro percorso rimane a più livelli esemplare. Doveroso ricordarne e celebrarne per la prima volta in formato digitale, allora, gli straordinari inizi, con un CD di studio che raccoglie tutto quello che fu pubblicato su vinile fra il 1982 e il 1984 più due inediti e un CD dal vivo – fino a oggi mai diffuso in alcun formato – che coglie i ragazzi alla Rôte Fabrik di Zurigo nel 1983. Sono quasi due ore e mezza di sudore e sangue, di rabbia e divertimento, di intensità e catarsi, delle quali gli anni non hanno soffocato l‘energia propulsiva ed eversiva; senza ombra di dubbio, uno degli apici espressivi e artistici di quel fenomeno poliedrico e purtroppo sommerso che la Storia ha etichettato come “new wave italiana”.
Federico Guglielmi, marzo 2015

http://www.youtube.com/watch?v=o0rcZ5_EhOI

watkins

Watkins Family Hour, Bluegrass Con Fiona Apple

watkinsEsce il 24 Luglio ‘Watkins Family Hour’ per Family Hour Records/Thirty Tigers il compendio delle migliori esibizioni dell’ultima annata del famoso live show di Sara e Sean Watkins dei Nickel Creek. La Watkins Family è un progetto live dei fratelli Sara e Sean Watkins, membri effettivi degli eroi bluegrass-indie Nickel Creek e amici turnisti dei The Decemberists. Watkins Family Hour nasce dallo show mensile che il duo ha realizzato per il Largo Club di Los Angelese, show basato su performance dal vivo di sole cover con ospiti d’eccezione del livello di Jackson Browne, Nikka Costa, Susanna Hoffs, John C. Reilly e Nick Kroll . Il disco è stato registrato durante alcune session del WFH del 2014 e 2015 con la partecipazione di Fiona Apple e Benmont Tench (tastierista di Tom Petty) come guest fissi all’interno della band. Si passa dall’indimenticabile ‘Not In Nottingham’ dal disneyano Robin Hood, al classico ‘Where I Ought To Be’ di Skeeter Davis reinterpretata dalla bellissima voce di Fiona Apple, fino a ‘Going Going Gone’ di Bob Dylan’, ‘Brokedown Palace’ dei Grateful Dead e la ciliegina punk di ‘The King of 12 Oz.’ dei Fear. Watkins Family Hour è bluegrass progressive all’ennesima potenza, un album in cui l’old school delle interpretazioni in presa diretta si fonde con un repertorio di cover classico aggiornato in chiave moderna.

 

 

 

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Grande successo per il nuovo libro di George Macdonald

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Night Beds, Ivywild

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Night Beds, il progetto musicale del 26enne Winston Yellen, è in procinto di lanciare il suo secondo album, Ivywild, in uscita il 7 di agosto per Dead Oceans. Il seguito all’acclamato debutto del 2013, Country Sleep, Ivywild è una mesmerica collezione di brani dal retrogusto malinconico e dal piglio sottilmente R&B.  La gamma di ascolti del nostro ha del resto condizionato le sue scelte più recenti, andando a cristallizzare una serie di ascolti eclettici che in prima fila prevedono jazz e musica di orientamento groovy. Per un artista che senza colpo ferire cita Bill Evans e J Dilla esiste per l’appunto un filo rosso costituito da quelle che Yellen ama definire ‘tristi jam sexy’, ispirate non a caso da una lunga relazione amorosa recentemente estinta. Una genesi che va rintracciata nelle notti all’addiaccio di Nashville, dove Yellen ha saggiato per la prima volta il piatto della metamorfosi hip hop: Yeezus di Kanye West.

Un team di circa 25 musicisti ha preso parte alla creazione del disco, particolarmente azzeccati gli ingressi del fratello minore Abe Yellen, peraltro suo migliore amico. Ulteriori contributi vocali arrivano da Heather Hibbard, vocalist del Maine che compare in 8 delle 16 tracce del disco. Decisamente fuori dai canoni  il loro incontro: Yellen la scova su you tube in un video amatoriale, in cui eseguiva in maniera impeccabile proprio un brano dei Night Beds.

La voce rimane lo strumento principe per Yellen, uno stile che sa essere contemplativo e soulful nella stessa misura, rappresentando così il centro di gravità di un disco che viaggia su arrangiamenti liquidi e parsimoniosi, rivisitando movenze finemente jazzy ed elettroniche in un’ ottica polverosa, vintage. Un disco che nella sua sobrietà ha la capacità di condurci per mano verso orizzonti inesplorati, ridefinendo l’idea di una canzone d’autore che incontra l’avanguardia nel rispetto delle tradizioni canore. Una prova magistrale che alimenterà a dismisura la stima nel giovane uomo.

 

 

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The Last Hurrah!!: Mudflowers

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Nella giovane Maesa Pullman il leader dei The Last Hurrah!! HP Gundersen ha trovato finalmente la voce ideale per il suo progetto in continua evoluzione, circostanza a cui teneva – evidentemente – più di ogni altra cosa. Dopo aver esplorato le possibilità della chitarra drone nel debutto “Spiritual Non-Believers” e la rivalsa della forma-canzone nel successivo “The Beauty Of Fake”, HP torna con un terzo album che si affaccia con grande competenza nel mare magnum della più classica tradizione pop e folk-rock, valutando una produzione vintage che potesse far convivere elementi di country ed Americana, brit-pop, psichedelia, blues e finanche soul. Il caporedattore di Rolling Stone David Fricke ha scritto in esclusiva le note del disco sottolineando che: “probabilmente avrete ascoltato tutto questo prima, ma – credetemi – mai in questa forma “.
HP Gundersen è stata una figura centrale nella vibrante scena musicale di Bergen, Norvegia, per oltre 3 decenni, sia nel ruolo di produttore che in quello di compositore e mentore. Nel ruolo di produttore va a lui attribuita la scoperta ed il lancio di Sondre Lerche, come una fervida attività che lo ha visto dietro al banco di regia per la realizzazione di oltre 50 album, considerata anche la bellissima avventura con il mito Tim Rose nel suo disco di commiato “American Son”. Songwriter, chitarrista e pianista, Maesa Pullman giunge dalla florida scena del sud della California, dove si è guadagnata un ruolo centrale nella comunità roots. Sua cugina Rosa Pullman è la vocalist d’eccezione in due brani del disco “You Ain´t Got Nothing” e “Those Memories”.
Tra i musicisti coinvolti nel disco non solo alcune delle menti più fervide del circuito norvegese, ma anche una serie di prestigiosi ospiti americani come Marty Rifkin (Springsteen, Petty, etc) alla pedal steel, John Thomas (Captain Beefheart) all’organo Hammond, Kiel Feher alla batteria e Jason Hiller al basso. ‘Mudflowers’ per la sempre più eclettica Rune Grammofon è sin d’ora una delle più sorprendenti ascese verso il pop d’autore, con buona pace degli integralisti. Un sublime viaggio nella tradizione europea e in quella a stelle e strisce, riportando in essere aromi ancestrali e torch songs senza tempo.

 

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Blanck Mass, L’altro Fuck Buttons

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Blanck Mass è il progetto solista di Benjamin John Power dei Fuck Buttons. Con questa sigla si muove parallelamente al gruppo madre dal 2010. Descritto da Fact magazine come “simultaneamente lenitivo e grandiosamente devastante, esoterico e sorprendentemente accessibile”, il suo omonimo album di debutto è stata un’elegante –  e tutto sommato introspettiva – dipartita dall’elettronica in forma stadio (ricordate la cerimonia dei giochi olimpici inglesi ?) con cui si era fatto conoscere. Proprio nel 2012, il suo brano “Sundowner” fece bella mostra in quella uscita ufficiale, raggiungendo un numero di utenti stimato intorno ai 900 milioni di unità. La sua nuova prova solista è stata concepita, prodotta e registrata in diverse location nell’arco di un anno.
Proprio come un pezzo d’arte ‘Dumb Flesh’  commenta le imperfezioni del corpo umano nel presente arco evolutivo. La fragilità del corpo diviene naturalmente parte risonante ed ineffabile nella gestazione del disco. L’album è passato attraverso una miriade di stadi prima di giungere al suo definitivo completamento. Power ci tiene a precisare che: “ci sono state almeno tre occasioni in cui ho riprodotto integralmente il disco, sostituendo la strumentazione e sperimentando con nuove macchine fino all’essere completamente soddisfatto dello stadio del progetto” La diffusione geografica delle sessioni si riflette negli scenari cangianti del disco, che ciononostante mantiene livelli di coerenza invidiabili, pur approntando di volta in volte rigorose sterzate stilistiche. La forza di Blanck Mass è tutta nel passaggio da momenti di pura beltà ambient a risolute frasi in cui un beat techno prende il sopravvento. Uno spettro elettronico cui difficilmente si può rinunciare.

Proprio come un pezzo d’arte ‘Dumb Flesh’  commenta le imperfezioni del corpo umano nel presente arco evolutivo. La fragilità del corpo diviene naturalmente parte risonante ed ineffabile nella gestazione del disco. L’album è passato attraverso una miriade di stadi prima di giungere al suo definitivo completamento. Power ci tiene a precisare che: “ci sono state almeno tre occasioni in cui ho riprodotto integralmente il disco, sostituendo la strumentazione e sperimentando con nuove macchine fino all’essere completamente soddisfatto dello stadio del progetto” La diffusione geografica delle sessioni si riflette negli scenari cangianti del disco, che ciononostante mantiene livelli di coerenza invidiabili, pur approntando di volta in volte rigorose sterzate stilistiche. La forza di Blanck Mass è tutta nel passaggio da momenti di pura beltà ambient a risolute frasi in cui un beat techno prende il sopravvento. Uno spettro elettronico cui difficilmente si può rinunciare.

 

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The Other Side Of Rickie Lee Jones

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Per due volte vincitrice del Grammy, Rickie Lee Jones esplose letteralmente nella scena pop con il suo seminale album di debutto omonimo, continuando poi a sperimentare sul suono e sulla sua stessa persona nel corso di una carriera costellata da grandissimi risultati artistici. 15 album unanimemente acclamati dalla critica e da un pubblico di estrazione roots (ma non solo), per un’autrice tra le più brillanti del nostro tempo. L’ultima offerta da studio porta il titolo di ‘The Other Side of Desire’, un disco scritto e registrato in quel di New Orleans. Città cui la nostra e’ fortemente ancorata, se pensiamo che la Jones vive proprio sul lato opposto della strada resa celebre da un’istituzione locale come Tennessee Williams. Prodotto da un tecnico esperto come John Porter (Roxy Music, The Smiths, Billy Bragg) e Mark Howard, questo è il primo lavoro sulla lunga distanza cui Rickie ha lavorato da oltre un decennio a questa parte.

“Questo disco è ispirato dai numerosi anni trascorsi nell’attesa di eventi cruciali nella mia vita, fino a giungere al momento della composizione, con la capacità di ritrarre compiutamente proprio quegli attimi salienti” queste le sue parole. “Sono arrivata a New Orleans con lo scopo di scrivere e vivere in una maniera diametralmente opposta al lifestyle della costa occidentale… Ecco così un altro album, fatto della mia immaginazione e di qualsiasi altra cosa non si possa descrivere a parole, utilizzando l’argilla di questo posto e le forme dei miei occhi per creare qualcosa che potesse restituire una fotografia nitida della mia vita, o del mio cuore, qualcosa che io sola possa comprendere fino in fondo e che gli altri – mi auguro – possano compiutamente apprezzare”

Più di ogni altra cosa continua a valere la definizione con cui Rolling Stone ne cristallizzò il mito : una combinazione di coraggio e vulnerabilità che si affaccia su confini indefiniti.

 

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