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Sufjan Stevens, Elegiaco Pop

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Ci riferiamo a questi tempi come aggressivi; l ‘incomunicabilità, il continuo affannarsi, la ricerca di un intimo benessere a discapito del prossimo: tutti elementi che in maniera repentina descrivono la nostra buia modernità. La musica per Sufjan Stevens è da sempre lo specchio di una natura distante dalle psicosi quotidiane, un’oasi di pace in cui riflettere e procreare. Lontano dall’asfissiante rincorrersi delle notizie mattutine, anni luce dal traffico frenetico della metropoli, un luogo della mente dove le melodie vanno ad adagiarsi sul pentagramma, al fine di costituire un invidiabile idillio.

Ci vuole un’attenzione estrema per sintonizzarsi con il mondo di Sufjan Stevens, fuori dalla porta occorre lasciare ogni stato ansiogeno, perché siamo al cospetto della terapia più docile, prossimi a quegli umori materni che usavano cullarci nottetempo. E’ un ritorno deciso alla scrittura più soffusa ed acustica, dopo gli esperimenti multimediali che hanno portato il nostro a confrontarsi a tutto tondo con l’avanguardia, approdando con successo anche nel circuito dei teatri off della East Coast. Finanche gli esperimenti di natura più elettronica ed r&b possono essere messi in disparte, della liaison con Son Lux e Serengeti non c’è infatti traccia in questo ‘Carrie & Lowell’. Annunciato in pompa magna per fine marzo sul marchio di casa Ashtmatic Kitty.

Torna al suo universo mistico ed al contempo casalingo Sufjan, usando quelle stesse metafore che lo hanno portato al successo indipendente. Un disco rassicurante, che sembra stridere con l’angustia dei tempi moderni, un lavoro che trasmette fiducia, immediatamente. Le buone vibrazioni verranno così accolte con un sospiro di sollievo dai fan della prima ora, i primi a sentire la necessità di un ritorno all’intimismo primigenio, a quell’essenzialità che ne aveva fatto un piccolo principe nello sterminato campo degli autori contemporanei. Che nessuno si azzardi a mettere al bando la filosofia, quelli che assaporerete sono ben 44 minuti focalizzati sulla mortalità, la memoria e la fiducia. Sono undici canzoni – comunemente intese – ed ognuna di esse ricorre ad una fragile melodia, fino a trascendere in una solenne inno moderno. Racconta gli affronti e l’impurità di questo universo, dove la tecnologia spesso diviene una scusante (fonte di enormi distrazioni), dove il sesso cibernetico assume piaghe sempre più tragiche e dove l’idea del mito e del miracolo è sempre più soffocata dall’incontrastato ego dei singoli. Le parole di Sufjan sono un incoraggiamento, un messaggio di speranza in un mondo che continua a roteare follemente su sè stesso. L’atmosfera elegiaca del disco ci consegna uno degli autori più puri del nostro tempo, un divino cantastorie, un usignolo la cui buona novella timidamente si deposita sullo zerbino di casa.

Info:

http://www.asthmatickitty.com/

https://www.facebook.com/pages/Sufjan-Stevens/73949695413?fref=ts

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Moon Duo, Psychedelicatessen

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I Moon Duo hanno iniziato a lavorare al loro ultimo album durante un periodo in cui hanno affrontato una nuova e quanto mai curiosa realtà. Liberi da qualsiasi consegna ed aspettativa, pronti ad andare di nuovo on the road, Ripley Johnson (Wooden Shjips) e Sanae Yamada sperimentano un cambio radicale nella loro percezione della realtà. Come all’inizio di un viaggio lisergico, o al margine di un burrone, quando le ombre convergono misteriosamente nella luce,  la loro esistenza ha iniziato a trasformarsi in un sogno surreale, per poi tornare di soppiatto all’attualità. Piani di percezione instabili, cui il gruppo ha risposto con un’immersione totale nella musica, pur di riguadagnare un pizzico di lucidità. ‘Shadow of the Sun’ (Sacred Bones) è così il risultato di alcuni mesi spesi in un limbo tutt’altro che consolatorio.  Lavorando in parallelo in un oscuro scantinato in quel di Portland e a piano terra nella solare San Francisco, questi nuovi suoni e canzoni variano drammaticamente di groove in groove, rivelando tessiture sonore in precedenza inesplorate dal duo.

Il brano ‘Night Beat’ con i suoi ritmi simil-dance è un tentativo di accettare gioiosamente la sfida, mentre ‘Wilding’ ribadisce i più familiari territori del Moon Duo rifugiandosi in figure ripetitive e  riff quasi escapisti. Altrove la band si abbandona completamente al trip , scontrandosi con i ritmi fuzz di ’Slow Down Low’ e ‘Free the Skull’ foraggiando poi le certezze narcotiche di ‘In a Cloud’, forse la cosa più prossima alla psichedelia inglese che il gruppo abbia mai proposto (le pagine sinuose del catalogo Spacemen3, in primis). Per dare un sapore ancor più esotico all’album il duo si accampa a Berlino per mixare il tutto con il beatmaker finlandese Jonas Verwijnen presso i Kaiku Studios. E’ qui che decidono di ribaltare completamente il fuoco sull’album, incrementando l’esposizione dell’obiettivo. Tecniche non convenzionali che rivedono il loro disegno psych-rock, alla fine di quel trip dal titolo ’Shadow of the Sun’.

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Bèbè Donge, Musica e Fumetti

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“Le verità di Bébé Donge” è l’esordio – targato Goodfellas – del collettivo di creativi romani (musicisti, fumettisti, sceneggiatori, registi ed attori), che si lega a doppio filo alla trama dell’omonimo romanzo noir del popolare scrittore belga Georges Simenon, in cui la protagonista (Bébé Donge, per l’appunto) tenta di uccidere suo marito avvelenandolo senza evidenti motivazioni. Grazie alla matita della fumettista Valentina Griner, con la supervisione di David “Diavù” Vecchiato, ed alla musica di un collettivo cui è affidato l’arduo compito di scrivere ed interpretare 10 brani che rappresentino i 10 momenti clou del romanzo, la storia riprende vita dando voce alla protagonista.

Mentre il fumetto utilizza una linea sintetica ed immediata accostata ad una tavolozza di colori scelti, in chiave narrativa, a richiamare pubblicazioni e riviste anni cinquanta, l’album è ricamato attorno ad un sound che strizza l’occhio alle colonne sonore italiane e francesi degli anni ’60 e ’70 ma che non disdegna virate verso rock’n’roll, garage e rythm’n’blues. Sono cinque i musicisti coinvolti: Fiammetta Jahier (RevHertz), autrice di testi e liriche; Federico “JolkiPalki” Camici (Honeybird & The Birdies, Kento & the Voodoo Brothers, Adriano Bono), produttore dell’album; Emiliano Bonafede (Leo Pari, Roy Paci); Tommaso Calamita (Rare Tracce) e Giuseppe Coglitore (Lemmings, Piotta).

Già premiato ai Nastri d’Argento nel 2013, grazie ad un videoclip curato da Gianfilippo Guadagno – realizzato usando esclusivamente materiali dell’Istituto Luce – nell’ambito del concorso “MusicaLuce”, e dopo l’acclamata anteprima del dicembre 2014 al “Noir In Festival” di Courmayeur, il collettivo giunge alla prima pubblicazione e alla vigilia di un tour che possa mettere insieme le varie forme espressive coinvolte: concerto e video art, mostra di fumetto ed inserti cinematografici, grazie anche alla collaborazione dello stesso “Noir In Festival” che ha patrocinato lo spettacolo.

Il cerchio della multidimensionalità artistica si chiude, quindi, con la messa in scena, prevista per marzo 2014, incui il concerto viene integrato con i lavori del videomaker Gianfilippo Guadagno e coordinato dalla regia di Simone Iovino e Silvia Spernanzoni, autori di un’ulteriore parte drammaturgica. Le canzoni si intersecano ad un mockumentary in cui diversi personaggi presenti nel romanzo di Simenon raccontano le loro sensazioni sul caso Bebé Donge, in un gioco di richiami con i testi dei brani che avvolgono completamente lo spettatore nel grande romanzo e nei suoi stessi interrogativi. Il cast dei filmati si avvale di attori del calibro di Pietro De Silva, nei panni dell’avvocato difensore, Veronica Liberale, nei panni della domestica di casa Donge, Silvia Frasson, nelle vesti della compagna di cella, Annamaria Zuccaro, nelle vesti della migliore amica di Bebè Donge, Glenda Canino, nei panni della sorella di Bebè.

La presentazione del progetto avverrà al Monk Club di Roma il 27 marzo 2015.

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Notwist, Hidden Soundtracks

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Quando i  Notwist sono tornati in pista con il loro acclamato settimo album ‘Close To The Glass’ (il loro debutto per la storica Sub Pop Records) agli albori del 2014, molti ascoltatori rimasero incantati dalla bellezza dell’epica ‘Lineri’. L’unica traccia strumentale del disco, nonostante il modus operandi – a detta del cantante Markus Acher – fosse informato da un profondo mood di ricerca, lo stesso che potesse contemplare le oscure libraries della De Wolfe, il jazz di casa MPS e l’elettronica ovviamente made in Germany. Bisogna fare a questo punto un passo indietro e considerare come la stessa evoluzione del gruppo sia stata radicale, dagli esordi quasi in sintonia con certo dissennato hardcore americano, ai passi successivi che oltre a prendere a modello il Neil Young elettrico sterzavano in direzione hard & heavy.

‘Laughing Stock’ dei Talk Talk fu probabilmente il disco che indicò la via ai nostri , condizionandone i futuri esperimenti. Se pensiamo a Tied & Tickled Trio, Village of Savoonga ed alle sortite soliste di Console, non c’è da meravigliarsi che un disco interamente strumentale potesse entrare nell’orbita Notwist. Che proprio tra il 2008 ed il 2014 lavorano a numerose produzioni teatrali e radiodrammi. ‘The Messier Objects’ è così un’attendibile finestra su questi anni di intensi lavori ‘carbonari’. Una compilation che nutre ancora il mito della formazione tedesca, tra le più raffinate del circuito alternative.

Sono 17 i brani – a volte poco più che funzionali sketch – della raccolta, dai collage simil-elettronici all’evidente trapasso post-rock di ‘Das Spiel ist aus'; potenziando la propria visione con l’ingresso di sintetizzatori modulari, percussioni analogiche ed addirittura una sezione fiati (‘Object 11′), i nostri elaborano grooves gentili che renderanno ‘The Messier Objects’ essenziale non solo al palato dei loro numerosi estimatori.

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Ryley Walker, il futuro è qui

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La copertina di ‘His Band And The Street Choir’ di Van Morrison deve aver condizionato non solo le scelte estetiche di Ryley Walker, un talento puro che all’età di 25 anni sembra aver sbaragliato ogni concorrenza in termini di maturità ed espressione del proprio io musicale. Il disco dello scorso anno – ‘All Kinds Of You’ edito dalla benemerita Tompkins Square – ha aperto la strada ai più nobili riconoscimenti della stampa specializzata, in attesa del definitivo allungo con ‘Primrose Green’, di imminente pubblicazione per Dead Oceans. Cresciuto sulle rive del vecchio fiume Rock nel nord dell’ Illinois, Ryley conoscerà un’adolescenza tranquilla prima di trasferirsi a Chicago nel 2007, per iscriversi al college. Qui inizia a frequentare con assiduità la locale scena dei club, confrontandosi con il lascito del post-rock e le più nerborute e decadenti manifestazioni noise (i gusti del nostro rimangono ad oggi profondamente disparati). Nel 2011, poco più che ventenne, il nostro si insinua adeguatamente nella tradizione del fingerpicking, osservando con parsimonia la dottrina dei vari John Fahey, Robbie Basho e Leo Kottke. Lo scenario sarebbe presto cambiato negli anni a venire, quando il gusto anglofono avrebbe preso il sopravvento, spostando l’asse degli interessi sulla perfida Albione, nello sposalizio naturale con lo stile conclamato di Bert Jansch e John Renbourn.

Per il nuovo album Ryley assolda un consistente numero di vecchi e nuovi talenti della windy city, andando a muoversi nei circuiti del jazz di ricerca e del rock sperimentale. L’apertura con la title-track ha del miracoloso, uno di quei brani che di diritto entrano nei dizionari rock di sempre, parafrasando le estatiche movenze del Tim Buckley altezza ‘Starsailor’. Con la successiva ‘Summer Dress’ gli arrangiamenti jazzy (l’uso del vibrafono è quintessenziale) sono ancor più determinanti, merito degli eccezionali comprimari coinvolti in questa pastorale avventura.  Anton Hatwich (contrabasso, Dave Rempis Quartet, Keefe Jackson ed una moltitudine di compagini avant) Frank Rosaly (batteria, Joshua Abrams Quartet, Scorch Trio, Jason Adasiewicz’s Rolldown)  Brian Sulpizio (chitarra, già nel precedente disco, un vero e proprio campione di gusto già frequentatore de circuiti rumoristi ed elettronici) e Ben Boye (tastiere, Bonnie Prince Billy, Angel Olsen) costituiscono più di un sostentamento per la penna dell’autore, capace di librarsi su di un tappeto sonoro ammaliante.

Per immergersi nello spirito dell’americana occorre voltare lato: ‘On The Banks Of The Old Kishwaukee’ è un’autentica testimonianza di vita, le fedeli memorie di Ryley che sulle sponde del fiume assisteva ai più classici battesimi nell’acqua. Più che a un’idea di redenzione il rimando è allo spoglio rituale, nelle acque limacciose del fiume con uno stuolo di partecipanti più che altro irritati. Per ascoltare il delizioso fingerpicking di ‘Sweet Satisfaction’ bisogna prima scomodare il John Martyn di ‘Solid Air’, pur considerando l’originalità del pianoforte di Ben Boye, qui particolarmente rivelatorio. Un’esperienza totale, tanto da candidare  ’Primrose Green’ ad una delle più miracolose pubblicazioni di quest’anno, proiettando il talento americano nella sfera dei grandi cantautori.

http://www.youtube.com/watch?v=96qBM4LL2ps

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Jon Spencer Blues Explosion – Freedom Tower

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New York City è una megalopoli estremamente rumorosa, molti dei suoi artisti si sono proprio formati all’ombra di quello stesso rumore. Il ritorno della Jon Spencer Blues Explosion è in pratica un morso feroce alla stessa cultura di strada della Big Apple, uno slancio vitale che prende il nome di  ‘Freedom Tower – No Wave Dance Party2015’, un titolo che già denuncia i suoi intenti rivelando certo la fascinazione per una delle più discusse correnti del dopo-punk, ma anche per la disco mutante che ha animato le sale del Danceteria e dello Studio 54.

Tutti i personaggi di serie b che hanno animato il cinema di genere e definito le frontiere culturali della grande mela sono presenti nella narrazione: lo spaccone e la bambola di fiducia,  il celebre cuoco, il poliziotto corrotto, gli artisti in sofferenza, ‘the sucker MC’ (come da slang locale), le prostitute dimenticate e la cenerentola alla sua ultima occasione. Una galleria vitale fatta di ritratti radicali, gli stessi omaggiati da Spencer/Bauer/Simins. Dall’inizio alla fine il disco ha un incedere nevrotico, è cucinato nella sporcizia e bagnato nella pioggia acida. E poi quelle rime montate su groove irresistibili, che del trio sono la specialità.

In tempi non sospetti la Blues Explosion aveva già flirtato con l’hip-hop, giusto in occasione di quei remix sperimentali che nel 2005 videro scendere in campo non solo Beck e Moby ma anche i due poco raccomandabili Wu-Tang Genius e Killah Priest. Il rock’n’roll sotto le mentite spoglie del rhythm’n’blues, nei mille volti di un gruppo che da sempre si pone ai vertici stilistici dell’underground, fiero nel ribadire i suoi trascorsi garage-thrash (con i suoi Pussy Galore Spencer ha definito i contorni del noise, riportandolo al suo stato primordiale). Registrato presso i leggendari Daptone House Of Soul di Bushwick e mixato da un personaggio influente nel circuito hip-hop come Alap Momin (Dalek) in quel di Harlem, ‘Freedom Tower’ è uno dei più provocatori stati del pathos urbano. Ci sono milioni di storie nella città nuda, ma c’è una sola Blues Explosion! La musica da protesta con cui danzare non è mai stata così ammaliante.

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The Supreme Jubilees: gospel-funk

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Se Dio avesse una discoteca, il suo dj suonerebbe idealmente il gospel-soul di questo misconosciuto gruppo californiano: The Supreme Jubilees. Preparatevi così a danzare e a contemplare al tempo stesso la morte come si conveniva a tutte le più autentiche celebrazioni soul.

Una band di fratelli e cugini in buona sostanza,  il gruppo era costituito da elementi di due famiglie strettamente legate tra loro: i fratelli Joe e Dave Kingsby più il figlio dello stesso Dave – David Kingsby Jr. –  il tastierista Leonard Sanders con i fratelli Phillips (batteria), Tim (basso) e Melvin (sax tenore). Il clan dei Sanders è cresciuto cantando insieme nella chiesa dei testimoni di Gesù Cristo a Fresno, California, dove il padre Marion era pastore. Il chitarrista  Larry Price– l’unico elemento al di fuori dell’albero genealogico – completava la  formazione che avrebbe registrato un unico album, dal profetico titolo di It’ll All Be Over.

Pubblicato nel 1980 per il marchio del gruppo S&K (Sanders & Kingsby) – ancora una volta il miraggio della private press –  It’ll All Be Over si concentra su un mood quasi fatalistico esemplificato dal titolo stesso. Con testi direttamente ispirati al vecchio testamento, la band sostiene  un suono di estrazione chiesastica con elementi disco-funk, sfiorando così le tendenze del tempo ed in particolare il dancefloor. Dalla copertina del disco – che raffigura un propiziatorio tramonto al di sopra dell’oceano pacifico – si coglie il senso stesso dell’offerta, descritta dall’autrice delle nuove note di copertina Jessica Hundley come apocalittica e seducente allo stesso tempo.

La gestazione dell’album non è stata affatto semplice. Le session si sono inaugurate presola Trac RecordCo, studio specializzato in  country and western proprio in quel di Fresno, dove l’ingegnere del suono talmente infastidito dalle richieste del gruppo – che cercava un suono di basso più potente nel mix – allontanò la formazione interrompendo bruscamente le registrazioni. Con la coda tra le gambe il gruppo lascia la sala d’incisione, con sole 4 tracce, quelle che avrebbero in pratica composto la prima facciata del disco, e si dirige preso i Sierra Recording Studio di Visalia, ancora California. Leonard Sanders sostiene di aver avuto un incontro spirituale nel sonno proprio durante questa fase: il giorno successivo avrebbe registrato tutte le parti dell’album in una singola take.

Dopo che il disco fu pubblicato, il gruppo portò la sua musica in tour, prima in California, dove si esibì al fianco di formazioni ‘a tema’ come Gospel Keynotes, The Jackson Southernaires e Mighty Clouds of Joy, e successivamente in un sfortunato viaggio in Texas. Un successore fu individuato nel 1981, senza materializzarsi formalmente: troppo dura la vita on the road per sacrificare le proprie famiglie ed i rispettivi impegni professionali. Fu così che l’avventura di questa estesa famiglia giunse al capolinea, senza in questo compromettere i duraturi rapporti d’amicizia.

Una copia dell’album giunse nelle mani di un fan texano, proprio al termine di quel fatidico tour, per poi apparire in un negozio di San Antonio, dove fu scoperta a 30 anni dalla sua pubblicazione dal collezionista David Haffner (Friends of Sound). Che inseguì letteralmente la famiglia Kingsby-Sanders nel corso di un barbecue in quel di Fresno il 4 di luglio del 2004. Il passo successivo fu quello di introdurre il gruppo a Light In The Attic Records, che oggi ripubblica il disco in una versione completamente restaurata e rimasterizzata, al fine di raggiungere per la prima volta il grande pubblico.

http://www.youtube.com/watch?v=1T9soSF2j9A

John-Carpenter-Lost-Themes

Carpenter – Lost Themes

John-Carpenter-Lost-Themes

John Carpenter è stato responsabile per alcune tra le migliori colonne sonore horror e science-fiction della storia contemporanea, associando alla sua imprevedibilità dietro alla macchina da presa una verve compositiva impagabile. Implacabile il suo stile, riconoscibilissimo e capace di insidiare da vicino alcuni protagonisti della scena electro come alcuni artisti post-rock riconvertitisi al verbo della musica cosmica. Le severe immagini delle sue pellicole albergano nelle nostre più recondite memorie, proprio perchè Carpenter aldilà di tutto è stato un fenomeno generazionale. Istintivamente quei fraseggi al piano o al synth rimandano alle scene topiche della sua filmografia: una babysitter  minacciata da un killer seriale, un denso muro di nebbia che nasconde un vascello fantasma, lottatori di kung-fu più veloci della luce o specchi che nascondono il passaggio segreto per l’inferno. Tutte le musiche contenute in Lost Themes – in uscita per Sacred Bones – hanno un’unica finalità: spingere i numerosi seguaci di Carpenter a visualizzare i propri incubi personali.

Nelle parole del regista/musicista Lost Themes è inteso come un nobile divertimento, ragionare in prospettiva delle immagini può essere buono o cattivo a seconda dei casi,  ma è ciò a cui Carpenter ci aveva abituati. Qui non ci sono state pressioni. Nessun attore che pretendesse di sapere cosa fare. Nessuna attesa dalle maestranze. Nessuna sala di montaggio e soprattutto nessuna scadenza asfissiante. Semplice divertimento. E non avrei potuto richiedere un miglior equipaggiamento casalingo, alle dipendenze di collaboratori come Cody (Carpenter, della band Ludrium) e Daniel (Davies, che ha scritto la canzone per I, Frankenstein) capaci di sollecitare idee nello stesso momento in cui ci mettevamo ad improvvisare. Il piano era quello di rendere la mia musica più completa e ricca, perché avevamo un numero illimitato di tracce. Non mi stavo confrontando solo ed esclusivamente con l’analogico. E’ un nuovo mondo. E non c’era assolutamente nulla nelle nostre teste quando abbiamo iniziato a ragionare su questa produzione.

Come nello stile carpenteriano, la ripetizione è la chiave di volta, una forza tumultuosa che innerva le corde del piano e dell’orango, attraversando tutto il corpo percussivo delle composizioni. I fans del cinema horror ricorderanno così oltre ai classici lavori di Carpenter – Halloween 13 o Assault on Precint 13 ad esempio – anche le trovate di alcuni pionieri come il Mike Oldfield di Tubular Bells od i Goblin di Suspiria.

Sono piccolo tracce da alcuni film immaginari, spero che qualcuno venga ispirato a tal punto dalla musica da poter creare la sua pellicola ex-novo.

http://www.youtube.com/watch?v=tyNuWCjc-bg

Matana Roberts 2

Matana Roberts, Chapter 3

Matana Roberts 2

 

Matana Roberts è una delle più acclamate figure del nuovo jazz, capace di confrontarsi allo stesso tempo con la grande eredità della musica impro e le più intime radici della black (dal gospel all’r&b, attraverso le molteplici declinazioni del verbo). Acclamata anche per la sua visione socio-politica e la sua intrepida estetica, la compositrice ha creato un ciclo di pubblicazioni che rappresentano un unicum, nella prospettiva di un ricerca che vede il superamento delle barriere pre-costituite.

Siamo al terzo capitolo della saga Coin Coin, inaugurata nel 2011 e documentata con sommo gaudio dalla canadese Constellation, che in occasione del primo episodio mise proprio a disposizione l’emblematico studio di registrazione Hotel2Tango di base a Montreal. Dopo il primo corale paragrafo, per il secondo capitolo Matana si orienta verso un approccio più mediato, riducendo di gran lunga il cast dei musicisti coinvolti e puntando anche su una spericolata interazione vocale con liturgie più classiche.

La Robertsè reduce anche dal conseguimento di due prestigiosi premi: l’Herb Alpert Award nel campo delle arti ed il Doris Duke Impact Award, entrambi nel 2014. Riferendosi al suo approccio come ad un avvolgente suono panoramico, con la terza installazione implementa questa metafora, lavorando di concerto a field recordings, loop e ad un effettistica che rimanda alle più primitive dinamiche e metodologie elettroniche. Il sax non è l’univa voce solista, ci sono anche interventi vocali e recitazioni accorate ad impreziosire lo svolgimento dell’opera. Come per il precedente episodio i brani si susseguono senza soluzione di continuità, amplificando l’idea di concept e prospettando una suite inedita. Frammenti di brani tradizionali  hanno la funzione di rappresentare le pietre d’angolo di questo edifico. Per l’occasione si ritorna alla squadra del primo disco per Constellation, con il coinvolgimento dell’ingegnere del suono Radwan Ghazi Moumneh e la scelta metodica dell’ Hotel2Tango. Il risultato è una testimonianza viscerale del suo sentire, tra strutture ordinate e slanci impro, una genesi che ricopre in toto l’esperienza artistica della protagonista, svezzatasi alla scuola AACM  di Chicago. Quello che ascolterete è uno degli album solisti più accorati dell’intera stagione, il risultato di un lungo viaggio attraverso l’america del sud agli albori del 2014, raccogliendo testimonianze e documentazioni sul campo, al fine di trasporre in musica una visione il più possibile attenta alla genesi del popolo afro-americano.

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Bettye LaVette performing at the Highline Ballroom, 5/26/10, New York City

Bettye Lavette, queen of soul

Bettye LaVette performing at the Highline Ballroom, 5/26/10, New York City

Bettye LaVette performing at the Highline Ballroom, 5/26/10, New York City

Bettye LaVette è una vera e propria leggenda musicale, con un carriera di oltre 50 anni alle spalle è oggi riconosciuta tra le più grandi interpreti della musica soul e pop. Una carriera strepitosa fatta anche di preziose apparizioni, come quella al fianco di Jon Bon Jovi durante il discorso inaugurale del presidente Barack Obama alla Casa Bianca nel 2009. O anche quella solida rivisitazione di Love Reign O’er Me degli Who al Kennedy Center Honors in un tributo che ha fatto letteralmente commuovere Pete Townshend e paralizzato Roger Daltrey. La sua discografia abbraccia così 5 decadi, ma è proprio nell’ultima che è stata finalmente riconosciuto il suo valore tra le migliori voci femminili d’America.

Nel2005 haregistrato l’album I’ve Got My Own Hell to Raise, che è valso anche una nomination al Grammy al produttore Joe Henry, uno dei più grandi cantautori americani contemporanei ed accidentalmente cognato di Madonna. Lo stesso Henry riflette sul valore assoluto di queste performance, ribadendo come Bettye abbia sbaragliato la concorrenza tanto nell’ambito soul che in quello blues, riportando finalmente alla luce un talento per troppo tempo oscurato dai media. Il suo non è un ritorno, nonostante la percezione comune del pubblico, la sua attività non si è mai drasticamente interrotta, semmai ha conosciuto oggi strade migliori per contemplare la notorietà. Altri due album fecero seguito a quella fortunata esperienza:The Scene Of The Crime del 2007 e Interpretations: The British Rock Songbook del 2010.

Oggi è un nuovo mattino, e dopo l’accordo siglato con la britannica Cherry Red, Bettye stringe di nuovo la facoltosa alleanza con Joe Henry, per ribadire la sua statura nel sorprendente Worthy, un album di cover fuori dal comune. La regina del soul si confronta così con 11 brani-capolavoro scritti da giganti che rispondono ai nomi di  Mick Jagger & Keith Richards, Bob Dylan, John Lennon & Paul McCartney, Mickey Newbury, Beth Nielsen Chapman & Mary Gauthier (che han proprio siglato la title-track) e dello stesso Joe Henry. Un  talento straordinario celebrato alla soglia dei 69 anni, una storia ancora aperta e non di meno affascinante.